Una pace a buon mercato

Negli ultimi anni il nostro Paese ha ripreso l’abitudine, in voga sin dai tempi della Guerra Fredda, di dare certificati di “democrazia” alle altre nazioni del pianeta. L’elenco degli stati retti da governi definiti assolutisti, chiamati “Stati canaglia” o “Asse del male” dall’ex presidente americano Bush, varia a seconda degli interessi economici, e geopolitici, in ballo. La lista subisce continui stravolgimenti di comodo, in conseguenza dei quali alcuni “cattivi” diventano “buoni” e viceversa. Sono escluse da cambiamenti di qualifica le sole nazioni che hanno scelto di applicare i principi socialisti alla propria società, come Cuba: le uniche senza speranza di essere rimosse dalla lista nera stilata in Occidente.

Solitamente l’informazione non osa mettere in discussione la classificazione tramite cui viene archiviato il mondo, guardandosi bene da creare difficoltà ai ministri con domande irriverenti, o peggio critiche sul loro operato. L’omologazione dei media ha abituato gli italiani, e non solo loro, ad essere trattati al pari di alunni a cui impartire la solita lezione fatta di slogan, e di descrizioni infantili, su quanto accade nel pianeta.

Lo Stato si rivolge generalmente agli elettori come ad una massa indistinta, lontana dalla politica e priva di coscienza critica. Gli eventi internazionali, ma non solo quelli, sono raccontati in un’ottica semplicistica, dalla comprensione meccanica: da una parte il Bene, cioè noi che siamo nati ad ovest, e dall’altra il Male. Le guerre iniziate da Usa ed alleati sono definite missioni di pace; il ruolo di protettori della libertà è ritualmente affidato all’area occidentale del mondo, a quella atlantista.

In un contesto blindato a tal punto, non è mai possibile per i cittadini comprendere, analizzare i fatti e formarsi un’opinione. Lo stesso dissenso viene demonizzato, ridotto a una dovuta quanto tollerata presenza nei programmi televisivi, e condotto al silenzio dal meccanismo dell’uno contro quattro in studio. Una sorta di caccia alle streghe, di ispirazione maccartista, espelle dal sistema chi è in disaccordo con esso.

La disinformazione e la mancanza di trasparenza da parte della politica, e della pubblica amministrazione, genera a sua volta una grave limitazione della libertà delle persone, e crea una sorta di regime soft basato sulla diversità di trattamento a seconda del pensiero espresso. L’esempio più recente di intervento massiccio per modellare l’opinione pubblica è rintracciabile nei commenti ufficiali che sono seguiti all’intervista, realizzata da Mediaset, al ministro degli Esteri Russo Lavrov, definita dalla politica e dai media “priva di contradditorio”. In realtà, l’evento giornalistico ideato dal conduttore Brindisi non si è consumato in un monologo, come invece molte delle dichiarazioni fatte dal presidente ucraino, ma in uno scambio di domande, seppur mai inoltrate con acredine, e di risposte.

Secondo molti opinionisti e parlamentari, la parata militare di Mosca del 9 maggio, l’anniversario della vittoria sovietica su Hitler, avrebbe dovuto essere l’occasione in cui Putin avrebbe dichiarato la guerra totale all’Ucraina, mostrando al pianeta il suo vero volto di pazzo guerrafondaio. Ma dal palco allestito di fronte al Cremlino nessuno ha annunciato quanto si aspettava il Patto atlantico, e di conseguenza l’analisi politica è mutata radicalmente descrivendo il leder russo come oramai ammalato e debole, quindi prossimo alla fine.

Avere notizie attendibili sulla guerra che si combatte ad oriente è impresa molto difficile, occorre verificare la bontà delle fonti e la veridicità dei fatti affidandosi a riviste specializzate, di nicchia, oppure alla rete ma in questo caso con molta attenzione. Di conseguenza la stessa indignazione diventa divisiva, condizionando addirittura le manifestazioni di piazza. In un tal disastroso contesto, tocca ancora una volta al Mercato (non quello delle armi) ricoprire il ruolo di regolatore delle tensioni sociali e internazionali, costretto a diventare l’unico alfiere della Pace con possibilità reale di successo.

Le esigenze del capitalismo sono le uniche in grado di imporre passi indietro, e a volte attimi di lucidità, agli esecutivi nazionali. In Italia improvvisamente gli imprenditori si sono resi conto che la guerra danneggia i loro interessi, oltre a quelli dei consumatori, e hanno iniziato a ricordare alla politica che l’Europa non è la cinquantunesima stella posta sulla bandiera statunitense. Morale, dopo due mesi circa di pesantissimi insulti rivolti al premier russo, e consistenti invii di armi al suo avversario sul teatro di guerra, le forze parlamentari nostrane stanno ritrovando la moderazione nella loro retorica bellicista. Macron apre al dialogo e l’Italia pare infine dargli ragione.

Ci vorranno anni per ricucire la tante ferite che il conflitto in essere ha generato nei rapporti internazionali, oltre che nei civili vittime della guerra, ma nel frattempo l’antipolitica avrà nuovi adepti tra le sue fila, pescando tra tutti coloro che si sono sentiti trattare come dei bambini dallo Stato. Una delusione crescente che sarà acutizzata dall’eventuale approvazione del ddl sulla concorrenza, da cui deriva la privatizzazione di tutti i servizi comunali.

Malgrado la dimostrazione pratica di cosa significhi cedere i servizi essenziali ai privati, fornita dall’enorme rincaro speculativo di gas e luce, l’esecutivo di Palazzo Chigi, approfittando della distrazione generale, si prepara a un’altra stagione di uscita del pubblico dalle società erogatrici di servizi che possano produrre profitto. 

Trasparenza e libertà di espressione sono l’essenza di ogni genuino sistema democratico, e questo principio non vale solo per la Russia me per tutte le nazioni. È forse ora di chiederci come possa nascere un regime sotto i nostri occhi. Passare dalle misure esemplari, a cui ci hanno abituano le decisioni governative anti Covid, al potere assoluto è davvero questione di un attimo, specialmente quando chi dovrebbe fare informazione tace o diventa l’ufficio stampa del premier di turno.

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