SACRO & PROFANO

"La variopinta ricchezza del clero", ma a Repole non basterà il pride

Divisioni e confusione dottrinale ben percepite dai fedeli. Ora per il nuovo arcivescovo non sarà facile ridare unità al presbiterio. E intanto studia i prossimi cambi in curia. La "lettura" di Olivero del rito di ordinazione. Una Chiesa in disarmo e rassegnata

Sabato scorso, terminata l’ordinazione, uno dei saluti del nuovo arcivescovo che ha suscitato gli urletti di alcuni fans, è stato quello rivolto alla «variopinta ricchezza del nostro presbiterio». In effetti, l’aggettivo – un po’ stile pride – non poteva essere scelto meglio per indicare la multiformità teologica ed ecclesiologica che regna nel clero torinese, non su aspetti particolare del sentire ecclesiale, ma sui fondamentali della fede e che l’aureo e mai abbastanza raccomandato libretto del sociologo Giuseppe Bonazzi, La fede di preti. Un’indagine etnografica – con post fazione dello stesso don Roberto Repole – aveva, già nel 2016, esemplarmente messo in luce. Naturalmente, essa è propagandata come una «ricchezza» e non come l’indice di una confusione dottrinale dagli effetti devastanti, ben percepita dai fedeli – anche quelli più semplici – e causa non ultima dell’abbandono di molti. Tale riferimento, rivela da parte del nuovo arcivescovo, la consapevolezza di essere di fronte ad un clero dalle differenti sensibilità che, dopo la profonda frattura dell’era pellegriniana, non ha più trovato una sostanziale unità, né nelle declinazioni operaiste del ’68 e dei suoi tardi epigoni, né nelle «immedesimazioni psicologiche» della formazione boariniana che oggi ha preso il comando ma che sa bene di essere “ipotecata” e minoritaria. Non sarà allora facile ridare unità al presbiterio, soprattutto nella sua «gaia frammentazione», legittimata dal relativismo dominante e, in qualche modo, confermata dal repoliano «pensiero umile».

Intanto, il primo provvedimento di monsignor Repole è stato quello di confermare nei loro incarichi il vicario generale monsignor Valter Danna, il provicario generale don Domenico Mitolo e i vicari episcopali. Naturalmente, donec aliter provideatur e che attendibili voci ab intradicono avverrà entro fine anno. Se non prima.

Ancora sul rito di ordinazione torinese, sono da segnalare le impressioni a caldo del vescovo di Pinerolo monsignor Derio Olivero apparse su L’Eco del Chisone di mercoledì 11 maggio. Esse dicono molto di come i pastori della nouvelle vagueecclesiastica concepiscano il loro ministero che non è più quello di confermare nella fede, di annunciare Gesù Cristo e la sua forza redentrice, ma semplicemente quello di «accompagnare» – ranherianamente si potrebbe dire – gli uomini verso orizzonti di pace e di fraternità. Sono pensieri indicativi che partono dall’indifferenza della gente e in particolare dei giovani rispetto agli «strani vestiti e copricapi» indossati dai vescovi – simboli dell’ormai abissale distanza tra il sentire e il vivere comune e la Chiesa – mentre si recano sulla scalinata del duomo dove sarebbero stati collocati “in vetrina”, simili a manichini”, per officiare lo “spettacolo” di un rito incomprensibile, orpello di “una roba strana, antica, inutile”.

A fronte di una umanità connotata da un nichilismo senza speranza qual è allora il compito – la pretesa – che il buon vescovo Derio prospetta per quella Chiesa in cui egli è inserito nella successione apostolica come maestro e guida e che invece di deprecare la sciatteria della   celebrazione non trova di meglio che paragonare lui e i suoi confratelli vescovi ad «extraterrestri, costumanti vestiti con abiti d’altri tempi»? Forse quello di proclamare a tutti opportune et importune il carattere unico e universale della buona novella portata da Cristo, al di fuori del quale non vi è salvezza (Atti 4, 11-12)? No, semplicemente quello di «guidare la mia Chiesa a stare con umiltà, in mezzo alla società, senza pretese, con una voglia matta di aiutare ogni uomo e ogni donna a vivere, a trovare fiducia e speranza». Tutto qui. Un messaggio etico di trasformazione dei cuori e della società alla quale   Cristo – nella sua umanità – può al massimo aggiungere un supplemento di vaga spiritualità in un processo di totale assimilazione al mondo, strada già ottimamente percorsa con gli esiti che conosciamo dalle confessioni riformate. Da notare come l’umiltà – alibi e scudo di tutte le sconfitte – sembra essere diventata sempre più spesso l’auriga virtutum di una Chiesa in via di dissoluzione. D’altro canto è noto come siano ormai quasi vent’anni che a Pinerolo non vien più ordinato un prete e che la diocesi sia da tempo quasi interamente appaltata ai Neocatecumenali.  Fino a quando Kiko Arguello non deciderà un giorno di trasferire i suoi figli altrove. Allora non resterà veramente che chiudere. 

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