Un preambolo antipopulista

C’è chi lo chiama “preambolo” – ricordando il vero e significativo “preambolo” della storia politica italiana, quello vergato nel famoso congresso Dc del 1980 da Carlo Donat-Cattin che chiudeva all’accordo di governo con i comunisti del tempo –, c’è chi la definisce strategia e c’è chi, infine, lo chiama semplicemente un atto dovuto. Resta il fatto che, in vista delle ormai prossime elezioni politiche generali, non c’è alcuna ragione politica, culturale e programmatica per le forze politiche riformiste, democratiche e di governo di stringere alleanze con i populisti. O meglio, con le forze populiste, antipolitiche e demagogiche. Certo, non cambiando la legge elettorale tutti sappiamo che rischia di prevalere il metodo del “pallottoliere”, cioè di dar vita concretamente ad una ammucchiata di forze, partiti e movimenti che perseguono l’unico obiettivo di annientare e distruggere l’avversario/nemico. Che poi è la logica che ha ispirato quel “bipolarismo selvaggio” che abbiamo conosciuto e sperimentato in questi anni, riconducibile a quella sub cultura degli “opposti estremismi”, seppur in forma aggiornata e rivista. Ma la crisi, oggettiva e senza appello, del populismo in tutte le sue versioni - anche se questa malapianta non va mai sottovalutata perché corre come un fiume carico nel sottosuolo della politica italiana - non può consentire, realisticamente, sotto il profilo politico e programmatico, di riproporre alleanze strette ed organiche con i populisti.

Per uscire dagli equivoci, com’è possibile che il futuro “Ulivo”, per citare la recente proposta del segretario nazionale del Pd, possa contemplare al suo interno una forza dichiaratamente populista, antipolitica, demagogica e giustizialista? Com’è possibile conciliare in un unico disegno politico e strategico le forze centriste, riformiste e democratiche con un partito che resta agli antipodi di una democrazia liberale, garantista e ispirata ai criteri del riformismo di governo? Questo nodo non può essere sciolto limitandosi a costruire il futuro scenario politico come se nulla fosse capitato. E questo perché quando si chiude una fase politica – basti pensare che le forze populiste e sovraniste nel marzo 2018 hanno avuto un consenso elettorale che ha sfiorato il 50% degli elettori – è necessario, nonché indispensabile, avviare una nuova fase e, soprattutto, avere il coraggio di abbandonare il vecchio al suo destino. Del resto, annunciare grandi proclami, suscitare forti attese, sbandierare nuovi inizi e poi stringere alleanze strategiche e di lungo termine con i populisti più o meno mascherati significherebbe, molto semplicemente, rinnegare alla radice tutto ciò che viene propagandato sugli organi di informazione e nelle piazze.

Ecco perché, dovendo per forza di cose costruire alleanze e coalizioni, i veri nodi politici vanno ancora sciolti, al di là delle chiacchiere e dei buoni propositi. E proprio il rapporto e il confronto con le forze populiste, demagogiche e giustizialiste sarà il vero banco di prova per misurare il tasso di riformismo democratico e liberale dei partiti che hanno una spiccata cultura di governo e costituzionale. Tutto il resto appartiene solo alla propaganda e alla goliardia.

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