Quo vado? La sinistra e il mito del posto fisso

Che contratti di lavoro si offrono ai giovani? È meglio accettare un lavoro regolare oppure sperare di sfondare su Tik Tok? Torino ancora capitale dell’Industria, dei diritti sociali e civili (magari anche dei doveri), sia luogo promotore di cultura nell’affrontare il problema dell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro con un giusto salario. Ma qual è il giusto salario? Quello stabilito dai contratti nazionali firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale. Quindi Cgil-Cisl-Uil.

Pertanto il salario minimo è predeterminato dall’inquadramento professionale o con percorsi definiti come nel caso dell’apprendistato dove ogni dodici mesi cresce sino a arrivare a regime del livello professionale previsto. Una prima battaglia di cultura e civiltà ma soprattutto di prospettiva e sicurezza futura per i giovani dovrebbe essere eliminare la dicitura di legge che prevede la possibilità, da parte del datore di lavoro, di non confermare l’apprendista dopo i trentasei mesi. È una norma assurda voluta dalle imprese a cui consente di tenersi le mani libere nelle assunzioni. Non predicano molto bene e razzolano male.

Se partiamo dall’assunto che i giovani non sono più attratti dal posto fisso, nemmeno quello pubblico, non dovremmo chiederci il perché ma ricreare la cultura del lavoro dipendente e non è solo un problema salariale. Uno stipendio lordo di 1300-1400 euro lordi mensili per una commessa, un barista, un operaio è dignitoso se regolarmente definito da un contratto nazionale? Eppure sovente viene rifiutato dai giovani, qualcuno vuole lavoro nero da sommare al reddito di cittadinanza; perché, non scandalizziamoci a sinistra, esiste anche questo cortocircuito creato dalla demenzialità pentastellata. Contemporaneamente ci sono imprenditori, non degni di tale nome, che offrono lavoro nero, contratti sottopagati firmati da sindacati minoritari e conniventi con le aziende. Insomma c’è di tutto! Ma se si va sui giornali a denunciare bisogna che si dica subito con chiarezza ciò che viene offerto e mostrare il contratto al giornalista, che dovrebbe richiederlo come base dell’articolo, sennò o è lavoro nero o si cerca pubblicità gratuita per i social.

Esistono anche le grandi illusioni: proporrei al preside del Colombatto di mettere un cartello all’ingresso del suo Istituto alberghiero: “Chi non intende lavorare il sabato e la domenica non si iscriva a questa scuola”. Si fugge dal posto fisso ma il lavoro “in proprio” è foriero di grandi incertezze sul riuscire a costruirsi un futuro, anche qui, dignitoso. Allora occorre ricostruire prima di tutto la cultura del lavoro dipendente e questo può farlo il sistema educativo ma possono farlo, evitando di curare solo il proprio orticello, le imprese, le associazioni datoriali insieme al sistema Istituzionale.

Bisogna aprire le aziende alla società, non solo con l’obiettivo di assumere, ma per fare conoscere come si lavora, si vive, e con quali condizioni di sicurezza, ambientale, economica, insieme alla possibilità di esprimere la propria professionalità. Magari dovremmo domandarci se c’è qualcosa che non funziona nel sistema educativo scolastico, se esiste una cultura diffusa o soffusa che non valorizza il lavoro in quanto tale.

Sicuramente, e qui entriamo anche nel campo della stratificazione sociale, c’è una fascia tendenzialmente sotto il ceto medio che però è un’ossatura del Paese formata da quei giovani che frequentano la formazione professionale. Perché chi esce dall’Engim o dalla Piazza dei Mestieri in qualche mese diventa birraio, barista, cameriere, pettinatrice e estetista, metalmeccanico o lavoratore del legno.

Esiste perciò una cultura o una necessità del lavoro dipendente legato al lavoro manuale. Tutte e due e se a sinistra ci si pensasse di più, oggi quella fascia sociale che è ancora abbondante e maggioritaria non sarebbe elettoralmente e culturalmente in mano alla destra populista o a quel che rimane, ancora per poco, dei Cinquestelle. Non vorrei ricordare male ma in quei ceti sociali è nata la sinistra.

Oggi rivendichiamo molto i diritti civili ma essi, senza i diritti sociali e aggiungerei una cultura del dovere sociale che ormai manca abbastanza a sinistra rischiamo di avere un effetto rifiuto del lavoro manuale (che ormai manuale non lo è più perché per fare il tornitore devi conoscere più informatica che meccanica) e dipendente che è anche lavoro dignitoso.

Sono ancora in grado i genitori, i nonni di spiegare anche che il mondo del lavoro non è un mondo idilliaco, che non c’è la “pappa pronta”, che occorre ancora conquistarsi degli spazi fatti di crescita professionale, economica, ambientale; che non è tutto è conquistato nel passato e migliorato nel futuro.

Ripartiamo dai Santi Sociali, tantissimi a Torino, come tantissimi furono i preti operai, recuperare quell’aspetto che li ha legati al lavoro manuale per dare dignità alle persone. Usiamo anche questo insegnamento per fare Torino luogo di cultura del lavoro e non insegna molo solo ai nostri figli ma educhiamo almeno tre generazioni di genitori perché la responsabilità non è sempre e solo di altri. Portiamo ad esempio quella moltitudine di famiglie e continuo a pensare e sperare che siano maggioranza che comunque hanno mantenuto un sistema educativo fatto di valori e di doveri che sono il presupposto dei diritti e dove la cultura del lavoro , anche manuale, significa dignità umana insieme a battaglia sociale magari con il sindacato.

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