LA SACRA FAMIGLIA

Per sempre Elkann (e mai Agnelli), quando la madre impedì l'adozione

A fine anni '90 l'Avvocato era pronto a dare il suo cognome al nipote prediletto, ma l'operazione non riuscì per la netta opposizione di Margherita (ed Edoardo). E da allora Jaki patisce un senso d'inferiorità verso il cugino Andrea. Dal nuovo libro di GIGI MONCALVO

Andrea Agnelli, John Elkann, Lapo Elkann. La differenza, e non è cosa da poco, sta tutta nei cognomi. Uno porta quello della royal family, gli altri due no. Non c’è niente da fare: il cognome di John si scrive e si scriverà sempre Elkann, non si scrive né si può pronunciare Agnelli. È sempre stato un cruccio di John: avere un cognome diverso. Al tempo stesso, il suo sogno è quello di chiamarsi John Agnelli, o comunque di essere considerato un Agnelli, di essere accettato come un Agnelli. Questa aspirazione è diventata ancora più forte negli ultimi anni. Egli prova un profondo e inconfessato fastidio quando l’impero economico-finanziario di cui è al vertice viene indicato come gruppo Agnelli. In compenso, gli dà un piacere immenso, dopo tanto faticare per farsi riconoscere come tale, essere definito il capofamiglia e l’erede di Gianni Agnelli, in questo caso con l’aggiunta di un aggettivo che adora: designato. Anche se non è del tutto vero che sia andata così. In ogni caso, John potrebbe avere tutto e potrebbe comprare tutto, ma gli manca una cosa fondamentale che nemmeno un uomo immensamente ricco come lui può acquistare: il suo cognome sarà sempre Elkann. Si scrive Elkann, si pronuncia Elkann. Non c’è niente da fare. Gli Agnelli veri sono altri.

John non sopporta che nell’impegnativa definizione che si è auto-attribuito – anche se anagraficamente è un po’ presto, a soli 46 anni, pretendere di meritare un simile e ambitissimo titolo – dopo il suo nome e cognome ci sia una virgola e occorra sempre specificare: il capostipite della famiglia Agnelli. Senza che nessuno aggiunga: attuale, dato che il vero capostipite è un altro, il senatore Giovanni Agnelli senior, il trisnonno di John che, per meritarsi tale titolo e tale funzione ha fatto ben altro rispetto a chi tra i suoi discendenti è stato il più fortunato, superando in questo campo perfino Gianni Agnelli. Il quale ha goduto di certo della predilezione che il nonno nutriva per lui e del fatto di essere il primo maschio in mezzo a tante discendenti femmine, ma comunque ha dovuto metterci del suo anche per ciò che meno gli andava a genio: lavorare e faticare.

Invece è stato aiutato non solo dal denaro accumulato dal nonno, ma anche dalle circostanze e dalla fortuna, chiamiamola paradossalmente così, di trovarsi la strada spianata verso la conquista del trono da una serie di decessi ravvicinati di persone che in qualche modo ne avrebbero ostacolato o reso più difficile la scalata. In primis, il cugino Giovanni Alberto Agnelli (scomparso per un tumore nel dicembre 1997) e anche lo zio Edoardo (novembre 2000). Questo ha facilitato il disegno di coloro cui conveniva l’ascesa al trono di John, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Steven, i quali avevano tutto l’interesse che il potere, almeno in apparenza, fosse nelle mani di un giovane inesperto e inadeguato che avesse un bisogno quasi disperato della loro guida e dei loro consigli; e quindi permettesse a loro di spadroneggiare restando, come sempre, dietro le quinte, più potenti di prima, più potenti che mai. (…)

John, con l’assistenza determinante di Gabetti e Franzo Grande, è stato accompagnato lungo un difficile percorso nel quale, cinicamente, non ha guardato in faccia nessuno, nemmeno sua madre, nemmeno suo cugino Andrea, il figlio di Umberto, che in quanto maschio e in quanto Agnelli aveva le carte in regola per coltivare legittime ambizioni. Sebbene si trovasse di fronte, come nei suoi amati campi da golf, a due gravi handicap: essere l’esponente del ramo Umberto, il fratello dell’Avvocato, e in più il fatto di chiamarsi Agnelli, il che rappresentava una colpa indelebile, proprio per quell’inestirpabile complesso d’inferiorità che John porta dentro di sé.

Nei confronti di Andrea, è stato spietato: piuttosto che affidargli a suo tempo la guida della Juventus, col rischio che la popolarità creata dal calcio e dalle vittorie ponesse il cugino su un piedistallo e attirasse soprattutto su di lui la luce dei riflettori, non ha esitato a mandare all’inferno la squadra tanto cara al nonno privandola di protezioni adeguate e consentendo che venisse retrocessa in serie B. In quel frangente ha relegato Andrea ai margini dell’Impero arrivando a consegnare la gestione del club a un gruppo improvvisato e incapace che ha provocato sconquassi per quattro anni. Alla fine, costretto dalle circostanze, John non ha più potuto fare a meno di affidare al cugino quasi coetaneo (Andrea è nato quattro mesi prima) il ruolo che gli competeva e per il quale appariva più adatto. Lo ha fatto solo nel 2010, quando ormai Andrea non poteva più dargli fastidio, ostacolare i suoi sogni di gloria, né contrastare la sua ascesa visto che la sua presa di potere si stava ormai consolidando ed era diventata irreversibile.

La Juventus è un altro degli aspetti che irrita terribilmente il giovane Jaki: viene sempre chiamata la squadra degli Agnelli. John non sopporta di essere il maggiore azionista del club, e soprattutto colui che dà ordine a Exor di versare ogni anno milioni e milioni di euro per ripianare i debiti dei bianconeri. Pagare e vedere che il suo cognome non viene nemmeno associato alla squadra, come meriterebbe e ambirebbe, lo innervosisce moltissimo. Anche se, negli ultimi tempi, Andrea non ne ha più azzeccata una, si è montato la testa, è diventato ancor più presuntuoso di quanto già fosse, dimostrando di non essere quel manager capace e moderno che voleva far credere. Ha inanellato una serie di errori clamorosi: l’eccessivo accentramento di poteri, una serie di collaboratori inadeguati, l’ostinazione nel voler creare la Superlega europea, l’ingaggio di Cristiano Ronaldo – positivo sul piano sportivo ma finanziariamente catastrofico –, l’inchiesta giudiziaria sulle plusvalenze, le accuse di falso in bilancio e di false fatturazioni, il crollo del titolo in Borsa, la vicenda dell’esame truccato di italiano del calciatore Suarez e non ultime le proprie vicende sentimentali. Per un certo arco di tempo, John ha sofferto per i successi di Andrea, per i nove scudetti vinti di fila, per il fatto che fosse il solo ad essere considerato e diventasse sempre più popolare, sempre in prima pagina. Ma, soprattutto, che soltanto a lui si riconoscessero i meriti (anche perché, in assenza di risultati il presidente della Juve è abituato a scaricare puntualmente le colpe sui suoi collaboratori).

Ora la situazione si è rovesciata: Andrea si è fatto fuori da solo, John non ha avuto bisogno di prendersi la rivincita (...)

Per John è sempre stata profonda la consapevolezza di quanto fosse importante chiamarsi Agnelli, la possibilità di sentirsi chiamare Agnelli, di potersi firmare Agnelli, la facoltà di poter essere a pieno titolo un Agnelli. E di non avere alcun mezzo per poterlo fare. Come si può essere del tutto accettati o riconosciuti al vertice di una piramide famigliare o imprenditoriale se non si porta nemmeno il nome, il brand che ha reso celebre la dinastia nel mondo? Come può essere considerato a pieno titolo l’erede di Gianni Agnelli se non porta e non si può fregiare del cognome della Real Casa?

Una simile esigenza era stata profeticamente avvertita verso la fine degli anni ’90 da quella vecchia volpe di Gianluigi Gabetti, il Richelieu, il cardinale Mazzarino o, secondo alcuni, il Rasputin dell’Avvocato. Insieme all’altro Gran Ciambellano, Franzo Grande, aveva cominciato un insistente pressing su Manitù – come veniva chiamato Agnelli, non certo da loro, come se fosse un grande capo indiano – per spingerlo a prendere una decisione clamorosa: dar vita alla procedura legale per affiliare (attenzione: non adottare, ma affiliare) suo nipote John, affinché potesse assumere a pieno titolo il cognome Agnelli. Si trattava di una trovata geniale, specie dal punto di vista mediatico. Si immagini che cosa significherebbe oggi avere al vertice del gruppo e di quel che resta della ex royal family un signore che si chiama John Agnelli. Anzi, più esattamente John Philip Jacob Agnelli. Quel marchio avrebbe una dimensione e notorietà planetaria, renderebbe felice anche la componente ebraica, grazie a quel terzo nome di John (Jacob, cioè Giacobbe) che racchiude molti significati. Un nome che andrebbe a smentire tutti coloro che, sacri testi alla mano, sostengono che John non possa essere considerato ebreo a pieno titolo poiché gli manca un requisito indispensabile: avere la madre ebraica, dato che la religione di Margherita Agnelli è stata quella cattolica prima che diventasse greco-ortodossa.

Comunque sia, il sogno (suo e di Gabetti e Grande Stevens) di potersi chiamare John Agnelli era miseramente naufragato – nonostante l’assenso del nonno ormai mentalmente vulnerabile e minato dalle cattive condizioni di salute – sugli scogli rappresentati dai suoi due figli veri e dalla loro furibonda e giustificata reazione. Margherita era stata a lungo tenuta all’oscuro dell’operazione. Ma, non appena le circostanze legali avevano imposto la necessità di avere il suo parere favorevole e la sua firma sui documenti, aveva affrontato il padre con estrema durezza e rifiutato. Edoardo aveva fatto lo stesso. E così, niente Agnelli: John è rimasto soltanto Elkann.

Estratti da:
Gigi Moncalvo
Agnelli coltelli
Vallecchi, Firenze 2022

print_icon