La lezione di Franco Marini

Il forte e significativo dibattito che si è acceso in questi giorni a livello nazionale sulla sostanziale irrilevanza politica e culturale dei Popolari nella esperienza concreta del Partito democratico, richiama l’attenzione attorno ad un aspetto decisivo di questa storica tradizione ideale: e cioè, il ruolo e la stessa “mission” dei Popolari hanno un senso solo se riescono a dispiegare organicamente la propria cultura politica e a incidere, altrettanto concretamente, nell’elaborazione complessiva del partito di riferimento. Non essendoci ancora, purtroppo, e almeno sino ad oggi, le condizioni per riproporre un partito a tutto tondo come fu la straordinaria esperienza del partito di Mino Martinazzoli, di Franco Marini, di Gerardo Bianco e di molti dirigenti autorevoli e storici di quel soggetto politico.

E, per fermarsi proprio a Franco Marini, che forse è stato l’esponente più significativo ed incisivo nei vari passaggi che hanno accompagnato il percorso politico dei Popolari dopo l’esperienza cinquantennale della Democrazia Cristiana e sino alla confluenza nel Partito democratico, c’è un elemento che non può essere sottovalutato. A prescindere dalle opinioni su come si è declinato concretamente quel percorso politico. E cioè, Marini ha contribuito, con altri dirigenti, a compiere quelle scelte politiche e strategiche rispettando sempre una condizione, vorrei quasi dire un preambolo. Ovvero, nei vari passaggi politici non si doveva mai ammainare la bandiera Popolare.

Detto in altri termini, l’identità, la cultura, il progetto e l’organizzazione dei Popolari doveva sempre essere visibile e tangibile. Certo, avere un partito autonomo accompagnato da un forte consenso e un massiccio radicamento territoriale e sociale era la strada prioritaria ma non sempre tutti gli ingranaggi si possono legare l’uno all’altro in un disegno armonico e coerente. Ma, al di là di questa prospettiva, che peraltro fu percorsa per alcuni anni, Marini accentuò sempre, nei suoi interventi come nelle sue scelte concrete, la necessità di marcare con coraggio e determinazione la specificità e l’originalità di questa cultura politica.

Ho voluto ricordare questo aspetto non solo per l’amicizia storica e antica con Franco Marini – nata con quella straordinaria comunità politica, culturale ed umana che era la “sinistra sociale” di Forze Nuove guidata da Carlo Donat-Cattin – ma perché il ruolo dei Popolari, a prescindere dallo scorrere delle varie fasi storiche e dei passaggi politici, può continuare a giocare un ruolo importante e decisivo solo se non si rinuncia a quella intransigenza politica. Uno stile e un metodo che, da sempre, caratterizzano il profilo di questo filone politico e storico. Anche perché l’alternativa a questo atteggiamento è una sola: e cioè, ridurre questa esperienza – anche se lo dico con il massimo rispetto per quella storia – alla stagione dei “cattolici indipendenti di sinistra” degli anni ‘70. Cioè una pattuglia di eletti nelle liste del Pci dell’epoca per confermare che quel partito era culturalmente plurale. Quando, come tutti sanno, si trattava solo di una presenza, culturalmente importante, ma politicamente ornamentale e del tutto ininfluente nonché irrilevante ai fini del progetto complessivo dei comunisti italiani. Appunto, l’esatto opposto di quello che devono essere i Popolari. Oggi più che mai.

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