Riforme, prima quella dei partiti

Il capitolo delle riforme istituzionali, e costituzionali, non può non intrecciarsi anche con la riforma dei partiti. Apparentemente uno si chiede perché ci debba essere questo legame. Eppure, un legame c’è, eccome se c’è. Mi viene in mente, al riguardo, una vecchia ma straordinariamente attuale riflessione di Carlo Donat-Cattin pronunciata in un corso di formazione dei giovani della sinistra Dc di Forze Nuove a Gubbio alla metà degli anni ’80. Diceva il vecchio Donat che “quando vuoi sapere cosa pensa un partito delle istituzioni nel nostro paese è appena sufficiente verificare come quel partito pratica la democrazia al suo interno”. Una riflessione, diciamocelo apertamente, che oltrepassa il tempo perché rappresenta, tutt’oggi, un cardine essenziale della nostra democrazia repubblicana.

Del resto, com’è possibile predicare la credibilità, l’efficienza, la stabilità e la funzionalità delle nostre istituzioni quando i partiti, cioè gli strumenti attraverso i quali si avanzano le proposte e i progetti di riforma, sono radicalmente anti democratici al loro interno in quanto “partiti personali” o “partiti del capo”? Una domanda, questa, a cui non si può non dare una risposta precisa, dettagliata e argomentata. E questo per la semplice ragione che diventa francamente difficile pensare di progettare il futuro delle nostre istituzioni – pensando di modificare la stessa Carta costituzionale – con partiti che al loro interno sono gestiti come aziende personali o poco più.

Nessuno, come ovvio, pensa di legare indissolubilmente la riforma dei partiti con la riforma delle istituzioni democratiche e di governo. Ma è indubbio che, senza un vero cambiamento dei partiti, si corre il serio rischio che le stesse riforme siano compromesse da un vizio d’origine. E cioè, con “partiti personali” e “del capo” difficilmente possono decollare riforme che portano un’impronta realmente e sostanzialmente democratica. Penso alla centralità del Parlamento, al ruolo dei corpi intermedi, alla figura di garanzia e di imparzialità del Presidente della Repubblica, all’efficacia dell’azione di governo, alla negazione dei pieni poteri, all’autonomia della Magistratura e via discorrendo.

Insomma, con partiti guidati dal capo, con una selezione della classe dirigente frutto della “nomina” – trasmessa dagli stessi capi partito – e non della elezione dei deputati e senatori, con un dibattito interno ai partiti del tutto inesistente se non per la spartizione degli incarichi, del tutto irrilevanti ed inutili, diventa oggettivamente arduo immaginare di costruire riforme istituzionali epocali e di grande valenza ed impatto democratici. Semmai, e come da copione, e malgrado la buona volontà e la determinazione della premier Giorgia Meloni, la riforma istituzionale si può trasformare in una semplice “arma di distrazione di massa”, come si suol dire in gergo.

Ecco perché, per tornare all’inizio di questa rapida riflessione, forse continua ad essere moderna la riflessione di Carlo Donat-Cattin quando evidenziava il ruolo fondamentale e decisivo dei partiti in una democrazia adulta e matura. Senza questa articolazione politica ed organizzativa – o con strumenti puramente virtuali e del tutto virtuali come sono oggi i partiti – qualsiasi riforma istituzionale e costituzionale è destinata ad essere sacrificata sull’altare della mera convenienza, e del tutto momentanea, dei singoli capi partito e delle rispettive oligarchie. Altroché la qualità della democrazia, la credibilità delle istituzioni e l’efficacia dell’azione di governo. E quindi, iniziamo dalla riforma e dall’autoriforma dei partiti e poi passiamo, con coerenza e maggior credibilità, alla necessaria ed indispensabile riforma delle nostre istituzioni democratiche.

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