Torino che non è New York

Quando si visita una città per prima cosa ci si dirige in centro, alla ricerca di testimonianze storiche lasciate da monumenti e palazzi antichi. Solamente i turisti attenti e sensibili (pochi) optano per un ampliamento della propria passeggiata, portandosi sino alla periferia urbana, laddove è possibile osservare la vita quotidiana degli abitanti (insieme a qualche altro immobile o piazza che testimoniano il passato più recente), e al contempo assaporare l’essenza reale della metropoli stessa. 

Torino presenta ai suoi ospiti quattro personalità molto diverse tra loro: quella dei rioni sorti all’interno delle mura difensive cinquecentesche, il cosiddetto centro storico; la periferia Nord, in perenne sofferenza e oramai simile alle banlieue francesi; quella verde ad Est, lungo il fiume Po, ed infine i quartieri Sud, sorti in gran parte con l’apertura degli stabilimenti automobilistici Fiat del Lingotto e di Mirafiori. Il turista può quindi vagare in grandi rioni che sembrano a loro volta delle città nella città, e una volta rientrato a casa avrà di certo molti dubbi su come definire l’ex capitale sabauda: luogo postindustriale in crisi di identità, dove meraviglia e miseria si mescolano di continuo, oppure capitale del Barocco che ha infine liberato i suoi monumenti dall’assedio delle auto?

Il cambiamento in peggio che ha colpito i torinesi è purtroppo visibile a chiunque viva o transiti nelle aree urbane lontane dalla Mole Antonelliana. Una testimonianza, tra le tante, la offre ciò che rimane dei grandi progetti di riqualificazione urbana, ossia i “Progetti Speciali” elaborati una ventina di anni fa dall’Assessorato Periferie. All’epoca, numerosi cantieri operarono con lo scopo di cambiare il volto urbanistico di intere aree, e la trasformazione del territorio fu realizzata grazie anche alla partecipazione dalle associazioni che operavano nei quartieri. 

Urban II, progetto realizzato a Mirafiori Nord, si proponeva di creare servizi e aggregazione tramite una serie di importanti interventi: la riqualificazione radicale di una storica piazza; l’ampliamento di una bocciofila antistante l’epicentro del borgo; l’apertura di un servizio dedicato alla ricerca del lavoro; l’avvio di alcune attività commerciali nei locali Atc e infine la creazione di una casa di quartiere al posto di un’antica cascina ormai prossima al crollo. La popolazione accettò la sfida, e Mirafiori sembrò dirigersi verso una nuova era.

L’entusiasmo collettivo, purtroppo, è andato a scemare nel tempo, anche a fronte di manutenzioni carenti unite ad assenze istituzionali. Dopo un bel periodo, in cui servizi e spazi pubblici si proponevano quali riferimenti di una metropoli policentrica, la spinta iniziale si è quindi esaurita lasciando sul terreno inquietanti spettri diventati in seguito monumenti all’abbandono.

Di quanto fu fatto rimane saldamente in piedi la Cascina Roccafranca, mentre il promettente centro lavoro da qualche mese è chiuso, prossimo al trasloco, e la piazza mostra i segni di una miriade di opere necessarie, ma negate negli anni. Intorno al punto focale del Progetto Urban regna la desolazione, a iniziare dalla bocciofila stessa: non più usata dai suoi soci è diventata oggetto di gravi atti vandalici e, attualmente, offre un posto coperto ad alcuni senza fissa dimora. La descrizione dello stato di abbandono in cui versa il quartiere comprende: i locali un tempo usati come laboratori professionali, ora in disuso e in pessime condizioni igieniche; il Centro Ragazzi (citato sempre con orgoglio dai residenti) il cui destino è ignoto, e il Centro di Protagonismo Giovanile, ridotto gravemente nella sua funzionalità a causa di infiltrazioni d’acqua mai riparate.

Mirafiori Nord dimostra perfettamente come il mancato interesse verso le periferie possa tradursi nella vita quotidiana. Vaste porzioni urbane, grazie alla desolazione in cui giacciono nell’indifferenza generale, si candidano a diventare rioni simili a quelli che caratterizzano Filadelfia o Chicago. Terre di nessuno in cui sopravvivere è una scommessa quotidiana; luoghi destinati ai “non ricchi”, caratterizzati dalla marcata assenza di attività commerciali e di servizi alla persona: un ammodernamento di Torino, in perfetto stile americano. 

Il turista curioso, intenzionato a vivere il capoluogo piemontese in tutti i suoi aspetti, purtroppo non troverà traccia alcuna della città solidale ed operaia novecentesca, neppure di quel welfare che in passato era definito il fiore all’occhiello di Torino. Egli, al contrario, dovrà confrontarsi con tante contraddizioni, ad iniziare da piazza San Carlo dove, tra chiese barocche e portici, potrà osservare una decina di senza tetto bivaccare e usare i cestini dell’Amiat come orinatoi. Spostandosi poi verso lo storico stabilimento Mirafiori (passeggiando tra i fantasmi di datati progetti di recupero urbano) osserverà le vestigia archeologiche di un orgoglio operaio scomparso nei meandri dei piccoli interessi individuali e, infine, si imbatterà nelle insegne del primo Pronto Soccorso privato cittadino, in zona Vanchiglia. 

Andare a New York per studiare, nelle aule della Fondazione Bloomberg, le nuove soluzioni urbanistiche da applicare al capoluogo piemontese è inutile, poiché l’allievo ha superato ampiamente il maestro. Il pubblico arretra mentre il privato avanza: la deprivazione sociale, ad oggi, è l’unico futuro certo per Torino. 

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