"Volemose bene", la fede è un optional. Torino e quegli altarini cattocomunisti
Eusebio Episcopo 07:00 Domenica 28 Luglio 2024Mentre il card. Zuppi riconduce il messaggio cristiano al "love is love" e tesse l'elogio della Murgia, dal passato riemergono le manovre della falange progressista della diocesi subalpina. Francesco "commissaria" la Comunità di San Martino
In questi giorni i preti della diocesi di Torino e di Susa hanno ricevuto una lettera a firma del desaparecido (pare per studi oltreoceano) vicario per la formazione, don Michele Roselli, in cui viene esposta la «proposta formativa» per il clero, relativa al 2025, approvata dall’arcivescovo Roberto Repole. Si parte, per l’aspetto organizzativo, dall’assemblea del clero di lunedì 23 settembre e dalla «convocazione diocesana» di sabato 5 ottobre dedicata al «presente e al futuro» delle due diocesi. Per l’offerta spirituale si è abbandonata la narrazione del monastero di Bose, post Enzo Bianchi, a favore di una “mistica moderata”, più confacente allo spiritualismo “boariniano” d’élite. Le meditazioni dei ritiri di Avvento e Quaresima saranno offerte da suor Maria Agnese Tagliabue O.S.B., abbadessa del monastero di Saint-Oyen, mentre le «mattine di spiritualità e fraternità», dedicate all’ascolto della Parola di Dio, saranno tenute da don Isacco Pagani, biblista della diocesi di Milano. Dopo la settimana residenziale di inizio anno dedicata all’intelligenza artificiale, si andrà in gita a Napoli dove regna monsignor Domenico Battaglia con cui l’arcivescovo torinese avrà modo di farsi apprezzare.
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Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, non cessa mai di stupire. Intervenendo al “Giffoni Film Festival”, dedicato ai bambini e ai ragazzi, non si è sottratto dal portare il contributo della Chiesa al paradigma del love is love che il porporato traduce in «basta volersi bene», senza ulteriori specificazioni. Ognuno riempia tale espressione come vuole perché non c’è nessun bisogno di credere per amarsi: «C’è tanta gente che dà forma di altruismo e attenzione al prossimo con forme di generosità, senza credere». Ma allora la fede cristiana a cosa serve? Sua Eminenza invero un compito ai cristiani affidati alle sue cure lo assegna ed è quello «di non usare gli altri e a volergli bene per davvero perché le religioni non hanno l’esclusiva del voler bene». Tutto verissimo. Ma allora, più che domandarsi a che cosa serva la fede, occorrerebbe chiedersi a cosa serva lui e se essere vescovo con l’ordine sacro gli sia stato conferito per tacere di Gesù Cristo, sostituito con la Costituzione in quanto, in fondo, basta un sentimento qualsiasi per volere bene.
Poco prima lo stesso Zuppi aveva dichiarato di aver capito il significato della parola queer direttamente dalla defunta Michela Murgia: «Mi raccontava dei figli che aveva, con cui non aveva un legame di sangue. Si sposò con un uomo perché potesse continuare ad avere quel legame con questi figli. Credo che questo dovremmo impararlo tutti senza che necessariamente ci sia un risvolto giuridico. Il punto è volersi bene», contano i sentimenti. Per il cardinale la queerness famigliare della Murgia non è la destrutturazione di ogni relazione sistematica che ha fondamento nella creazione, paternità, maternità, e figliolanza, ma solo una variante del «volersi bene» e circa le comunità Lgbt ha ripreso lo slogan todos, todos, todos. Ma cosa dice in proposito la Sacra Scrittura? «O non sapete che gli ingiusti, non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né sodomiti, né adùlteri, né effemminati, né sodomiti, né ladri, né maldicenti, né rapaci erediteranno la terra» (1 Cor 6,9). A queste inequivocabili parole, il generale dei gesuiti padre Arturo Sosa risponderebbe che, come per i tempi di Gesù, così anche in quelli di San Paolo, non c’era il registratore, salvando soltanto – in quanto politically correct – l’invettiva paolina contro gli ingiusti, i ladri e i rapaci. Meno interpretabili le parole di Benedetto XVI: «La verità facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose. Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo» (Caritas in veritate).
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Traditiones custodes
Che il todos, todos, todos non valga per tutti appare sempre più evidente. È di questi giorni la notizia che una delle congregazioni religiose più attive e rigogliose di vocazioni, la Comunità di San Martino, molto diffusa in Francia, è stata di fatto commissariato dal Dicastero per i religiosi con l’invio di tre «accompagnatori». Essa nacque nel 1978 e trovò ospitalità nella diocesi di Genova dal cardinale Giuseppe Siri e subito si propagò in varie nazioni; oggi l’Istituto ha 175 preti e quasi 100 seminaristi ed è diventata una fonte preziosa per le disastrate diocesi francesi, una fonte a cui attingere per continuare a esistere. Da notare che i preti della San Martino accettano pienamente e integralmente gli insegnamenti del Vaticano II ma, soprattutto, celebrano con solennità la liturgia secondo il Messale di Paolo VI del 1969, amano e insegnano il canto gregoriano e indossano la talare, quindi nessuna preferenza per il Vetus Ordo. E allora perché questa grave misura giustificata con «il clima abusivo nell’esercizio dell’autorità e nell’accompagnamento spirituale»? Non è necessario essere troppo perspicaci per capire che la Comunità dava fastidio in quanto, con troppi preti e troppe vocazioni, era diventata, nel deserto vocazionale, un modello e avrebbe potuto costituire un “contagio”. Meglio correre ai ripari e lasciare vuote le chiese.
I preti che pensano di dare gloria a Dio con la solennità dei riti liturgici, osservando le norme, usando il latino e il gregoriano, sappiano perciò che sono nel mirino, anche se celebrano con il Novus Ordo, in quanto sospetti, non di tradizionalismo, ma di subdolo clericalismo, che papa Francesco assimila alla peste. Una prova? Don Domenico Cravero, ordinato nel 1977, parroco di Piobesi, liturgista, psicologo e fondatore di comunità – già preconizzato vescovo dal clero progressista di Alba e poi surclassato da Marco Brunetti – ha pubblicato un libro per mettere in guardia da quello che papa Francesco ha assimilato alla peste e che ha avuto l’onore della prefazione del cardinale Zuppi: La ferita del clericalismo, Edizioni San Paolo. Per il buon parroco, uno dei sintomi del clericalismo sono «gli eccessi di ricercatezza, la messa in scena di sé, lo sfoggio, l’ostentazione della differenza, in forme più o meno esplicite» perché il clericalismo «pretende di avere il monopolio del sacro ma allontana da Dio: troppa autorità, troppe sovrastrutture, troppa esteriorità». I preti – ma anche i laici! – sono avvertiti. Non rimane allora, se si vuol sopravvivere, che adeguarsi al minimalismo liturgico o, molto più realisticamente, alla sciatteria dominante la quale – secondo le argomentazioni di don Cravero – invece avvicinerebbe i fedeli a Dio.
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La figura di don Giuseppe Pollarolo (1907-1987) oggi non dice più nulla ma egli fu un vero e autentico “prete di frontiera”, solo che su di lui è calata, pesante e inesorabile, come è successo per altri preti torinesi, la damnatio memoriae del cattocomunismo ecclesiale. Sacerdote di don Orione, nel 1943 egli fu trasferito dai superiori a Torino dove infuriavano i bombardamenti e dove il cardinale Maurilio Fossati lo nominò cappellano del lavoro guadagnandosi subito la stima degli operai della Fiat. Fu assiduo nell’assistenza agli ebrei perseguitati diventando presto cappellano dei partigiani salendo in montagna, dove fu amico e sostenitore di Duccio Galimberti. Nel 1944 fu arrestato dai fascisti e portato nella famigerata caserma di via Asti, dove subì un duro interrogatorio, fu poi preso dai tedeschi e condannato a morte, ma riuscì a fuggire e a risalire in montagna dove compose la “Preghiera dei Volontari della Libertà della VI Brigata Giustizia e Libertà”.
Decorato di medaglia di bronzo al valor militare, ritornò dopo la Liberazione a Torino dove fu il vibrante apostolo della Peregrinatio Mariae nelle fabbriche e il costruttore e l’anima della Casa dell’operaio e dell’Università popolare. Opere di assistenza che negli anni dell’immigrazione gli attirarono, nel 1970, l’ostilità dei comunisti, che lo accusarono di fare del mero assistenzialismo e di essere succube agli interessi Fiat trovando agli immigrati un lavoro e una sistemazione, sia pure provvisoria: «Gli attacchi gli vennero non soltanto dal mondo comunista, sotto la regia dell’Unità, ma anche dal mondo cattolico torinese, con in testa il settimanale diocesano La Voce de Popolo. Contro il sacerdote orionino, intervennero il cardinale Pellegrino e don Franco Peradotto i quali sostenevano che l’assistenza era compito degli enti pubblici e nessuna opera di supplenza dei religiosi doveva essere ammessa mettendo così in discussione, grazie alla egemone cultura marxista e statalista, che penetrava nello stesso mondo cattolico, tutta l’opera assistenziale dei cattolici, sbrigativamente squalificata e bollata come obiettivamente connivente con lo sfruttamento capitalista industriale e con l’inerzia dei poteri pubblici». Don Pollarolo fu duramente provato da tanta ingiustificata critica, ma non si perse d’animo e volle ancora essere un prete di frontiera diventando parroco e costruttore della parrocchia della Sacra Famiglia alle Vallette dove rimase fino al 1985, spegnendosi poi due anni dopo.
Ecco come uno storico della Chiesa torinese, lucido e obiettivo, don Giuseppe Tuninetti, commentò in una sua pubblicazione gli avvenimenti del 1970: «Sull’onda contestatrice sessantottina, che non risparmiò nulla, nel contesto di una cultura e di progetti politici marxisteggianti che contagiarono anche parte del mondo cattolico ed ecclesiastico torinese, don Pollarolo fu duramente contestato dai comunisti e letteralmente crocifisso da una parte del mondo cattolico e dal settimanale diocesano in ciò che aveva di più caro, le Case dell’operaio, e il modo in cui fu pubblicamente messo in discussione non fu dignitoso perché senza di lui la storia della pastorale, dell’immigrazione e della periferia urbana risulterebbe lacunosa. Al di là della rivendicazione di una doverosa e giusta esigenza di prestazione di servizi dignitosi, non è difficile individuarvi una penosa sudditanza alla cultura marxista e statalista, dominante in ambienti ecclesiastici sedicenti progressisti, che costituiva – ed era l’aspetto più preoccupante – una inammissibile abdicazione alle esigenze della carità evangelica, che da duemila anni si era espressa nelle opere di misericordia, corporali e spirituali».
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Monsignor Peradotto – o qualche eminenza grigia uso a strumentalizzarlo – fu protagonista di uno degli episodi più emblematici (e grotteschi) della storia recente della diocesi di Torino. Nel 1977, in seguito alle dimissioni del cardinale Michele Pellegrino, egli si pose a capo di una «delegazione» del consiglio pastorale diocesano – espressione in quel momento di ambienti progressisti che già l’anno prima, in occasione delle elezioni politiche, avevano messo in difficoltà l’arcivescovo tentando di far esprimere il consiglio a favore del Pci – si recò a Roma presso la Congregazione dei vescovi al fine di indicare il nominativo del nuovo vescovo di Torino. Ricevuti con somma cortesia dal prefetto, il cardinale Sebastiano Baggio (1913-1993), la delegazione espose al porporato il profilo del vescovo «ideale» per Torino, le cui caratteristiche corrispondevano a quelle del vescovo di Livorno, monsignor Alberto Ablondi (1924-2010), amico stretto del cardinale Pellegrino, noto per le sue posizioni «avanzate», sospetto di essere massone e – ma lo si saprà soltanto dopo – per avere una relazione stabile con una donna sposata di 20 anni più giovane di lui. Il cardinale Baggio ascoltò compunto le perorazioni dei torinesi, li ringraziò e li congedò con ampi sorrisi dichiarando che dei loro suggerimenti si sarebbe tenuto conto. Soltanto a posteriori si venne a sapere che, mentre il porporato riceveva la delegazione, il nome del successore di Pellegrino era già stato scelto personalmente da Paolo VI ed era quello dell’arcivescovo di Bari, il carmelitano monsignor Anastasio Alberto Ballestrero e che lo stesso pontefice non aveva gradito per nulla la trasferta romana dei torinesi e ancor meno che a capo di essi si fosse messo l’incauto don Peradotto. Da allora, ogni volta che entrava in qualche terna o veniva indicato per l’episcopato, il nome del prete canavesano veniva sistematicamente cassato.