Bomba o non bomba

Il 6 agosto 1945, alle ore 8,15, un bombardiere americano si preparava a sganciare il suo ordigno nucleare (chiamato simpaticamente “Little Boy”) sulla città giapponese di Hiroshima. L’esplosione di luce distrusse in un attimo il 70% degli edifici, uccidendo migliaia di persone (quasi tutte civili). Le radiazioni, generate dalla bomba, continuarono a mietere la popolazione per i mesi seguenti. 

Tre giorni dopo, il 9 agosto alle ore 11,02, un secondo grande ordigno venne liberato su un’altra città del Giappone: Nagasaki. Le due bombe annientarono circa 210.000 cittadini, mentre 150.000 rimasero gravemente feriti: una tragedia colossale che coinvolse donne, bambini e anziani. 

Catastrofe umana e sociale decisa, a tavolino, con lo scopo di infliggere una dura lazione al Paese del Sol Levante, seppur prossimo alla capitolazione, ma soprattutto voluta per esaudire la curiosità scientifica dei fisici statunitensi, i quali non avevano piena conoscenza degli effetti causati da una bomba H (compresi quelli definiti “spettacolari”) lasciata cadere su un centro abitato.

Le macerie delle due città erano ancora incandescenti quando, firmato l’armistizio tra Washington e Tokyo, gli scienziati statunitensi si recarono nei martoriati territori per riprendere le conseguenze delle esplosioni atomiche. Una sorta di crudele cinismo “scientifico” ha segnato i giorni seguenti la calamità nucleare. Fisici sorridenti, in camicie bianco, vollero immortalare la sofferenza umana delle vittime di quel Sole esploso improvvisamente nei primi giorni di agosto: immagini spietate, disumane e soprattutto ignorate da gran parte dei leader politici che oggi governano il mondo; pagine di Storia deliberatamente escluse dai libri scolastici (la maggior parte degli studenti non sa attribuire la paternità delle bombe lanciate sul Giappone).

Una pericolosa ignoranza riguardante gli effetti della guerra sui civili, nonché le immani tragedie che questa genera, conduce oggi a una sfrenata voglia di belligeranza che si insinua tra i quadri dirigenti politici europei: sentimento incapace di lasciare spazio alla ricerca di mediazione diplomatica, ma senz’altro utile alla potente industria militare.

L’unione tra non conoscenza e malafede ha spinto, quindi, molti leader europei a indossare in politica estera l’elmetto, e ad abbandonare, di conseguenza, qualsiasi remora nel pronunciare la parola “guerra”. Costoro alla mediazione preferiscono l’intransigenza nei confronti della nazione avversaria, e al contempo prediligono incitare alla vittoria anziché perseguire la parola “pace”. 

L’espansione della propria area di influenza geopolitica sembra essere la priorità dei Paesi filo atlantisti, anche a costo di assediare una potenza nucleare rivale: entrare nel suo “cortile di casa” (quello che per gli USA è l’America Latina) senza curarsi troppo delle conseguenze. L’Europa con l’elmetto ha voluto ignorare la guerra civile iniziata nel 2014, con la cacciata da Kiev del Presidente Janukovyc, nei territori ucraini russofoni. Un conflitto drammatico poiché caratterizzato da innumerevoli atti di violenza etnica, tra cui l’incendio della sede sindacale di Odessa (dove perirono bruciati molti cittadini ucraini di lingua russa).

Dopo l’ultimo riarmo concesso al nemico, grazie a miliardi di dollari forniti dai Paesi appartenenti alla NATO, Mosca ha ricordato al mondo il suo ruolo di super potenza nucleare, e, contemporaneamente, ha modificato il protocollo d’uso degli ordigni stessi nel caso venga minacciata la sua indipendenza e la sovranità territoriale. Importanti segnali inviati all’Occidente che sono caduti nel vuoto, poiché ripresi solamente dai titoli a tutta pagina di alcuni quotidiani, e accolti con indifferenza dai primi ministri dei governi europei. 

La politica occidentale è convinta che la Russia non userà mai il proprio arsenale nucleare. Una certezza ancorata da una parte all’istinto di conservazione che accompagna l’essere umano, mentre dall’altra al dato storico: ad oggi le uniche due bombe atomiche cadute su centri abitati sono state costruite e sganciate dagli americani, non dai russi.

Ogni giorno la corda viene tirata un po' di più, sino ad avvicinarsi alla tensione che porta inevitabilmente allo strappo. Il campo di battaglia, del resto, è esclusivamente europeo, e la guerra rimane sempre un’ottima occasione di sperimentazione. Fino a quando ci sarà disponibilità di carne da macello, o da cannone, crescerà il PIL nazionale dei Paesi produttori di missili e droni. La guerra può tranquillamente continuare se i territori contesi sono ricchi di metalli rari e materie prime, inoltre dopo tanta distruzione (se ci sarà ancora una umanità sul pianeta) seguirà inevitabilmente la lucrosa ricostruzione.

Lo stato di belligeranza rimane sempre un ghiotto business per molti settori produttivi e di servizi. Nuovi mercati si aprono all’orizzonte, e poco male se alla fine saranno fatte esplodere le bombe all’uranio: si troverà di certo modo di trarre profitto puntando sulle necessità dei pochi, ricchissimi, rifugiatisi nei bunker sottoterra all’arrivo della prima bomba.  

print_icon