SANITÀ

Dati farlocchi e verifiche fantasma.
Come non ridurre le liste d'attesa

Una (mala)gestione delle visite a pagamento, tra numeri falsi e mancati censimenti sui locali. È quanto emerge dall'inchiesta sulla Città della Salute di Torino. Più prestazioni in intramoenia, più si allungano i tempi per quelle del servizio sanitario

La grande bugia. È quella che perpetuandosi di anno in anno, da un vertice all’altro della più grande azienda ospedaliera del Piemonte, è andata gonfiandosi e rotolando come una valanga ha coperto e stravolto la realtà su una delle cause principali delle liste d’attesa.

Il rapporto tra le prestazioni erogate dal servizio sanitario nazionale e quelle fornite, spesso dallo stesso medico, in regime di libera professione e quindi a pagamento, è da tempo al centro del dibattito sulle cause dei tempi troppo lunghi per le prime e straordinariamente breve per le seconde. In poche parole, se paghi ottieni la visita subito, altrimenti aspetti settimane, mesi, perfino anni. Ma se i dati relativi alle prestazioni a pagamento, ovvero in regime di intramoenia, sono falsati e pure le regole alla base di questo discusso, ma legittimo, sistema non vengono rispettate ecco che tutto salta e anche le migliori intenzioni per risolvere il problema, insieme a non minori impegni economici, servono a poco o nulla.

Oltre al presunto aspetto economico, ai bilanci che i magistrati ritengono essere stati falsati per una decina d’anni, nell’inchiesta che ha portato ai 25 indagati tra manager e dirigenti della Città della Salute di Torino, c’è anche questo aspetto per nulla meno grave, anzi, rispetto ai bisogni dei pazienti. L’attività dei medici in regime di libera professione intramuraria è condensata in un acronimo, Alpi. E proprio quella sigla compare più volte negli avvisi di garanzia inviati, tra gli altri, all’attuale direttore generale dell’azienda Giovanni La Valle, a quello amministrativo Beatrice Borghese e al da poco ex direttore sanitario Lorenzo Angelone, oltre che ai loro predecessori. 

Per i pubblici ministeri i vertici del grande polo sanitario di corso Bramante “attestavano falsamente nei questionari di rilevazione Alpi, fatti dei quali gli atti o altri atti ad essi conseguenti, sono destinati a provare la verità, ossia la conformità del sistema di governo Alpi da parte della Città della Salute”. I magistrati esplicitano ulteriormente i fatti addebitati, scrivendo che i direttori “attestavano falsamente i dati relativi all’esercizio delle libera professione non veritieri determinando l’inserimento di tali dati nelle relazione annuale dell’Osservatorio nazionale sull’attuazione del programma degli ospedali al Parlamento”. 

Insomma, i numeri cui sui poggia la tesi di chi sostiene che non è un eccesso di prestazioni a pagamento a far sì che le liste d’attesa siano sempre più lunghe, sono numeri sballati. Lo sostiene anche l’accusa laddove scrive che lo stesso Osservatorio al quale la Regione inviava i dati ricevuti dalle Molinette “forniva al Parlamento una rappresentazione falsata dei livelli di adempimento alle prescrizioni in materia di libera professione”. Ora pur non tacendo della gravità di un quadro che arriva falsato in Parlamento, la questione che interessa se possibile ancora di più è quella che emergerebbe dall’indagine appena conclusa, ma anche dalla ispezione effettuata proprio sull’intramoenia a Città della Salute dal Mef e citata negli avvisi di garanzia. Dagli accertamenti svolti e come riportato negli atti, emergerebbe che i vertici dell’azienda dal 2014 al 2020 compreso avrebbero attestato il falso dichiarando che era stata fatta la “ricognizione degli spazi disponibili per l’esercizio dell’Alpi e la non disponibilità di spazi idonei e sufficienti”, a fronte del fatto che, come scrive la Procura, non è emersa “alcuna documentazione comprovante l’effettiva ricognizione”. 

Non è un dettaglio questo e lo si comprende bene guardando alla legge sull’intramoenia e la sua effettiva applicazione. La norma prevede infatti che la libera professione venga esercitata all’interno della struttura pubblica in cui il medico lavora e solo in caso in cui non siano disponibili locali adeguati, il professionista possa essere autorizzato a esercitare l’intramoenia in studi privati esterni, purché non accreditati. Come abbiamo scritto più volte, nei mesi scorsi, questa eccezione è diventata quasi la regola un po’ ovunque, con le conseguenze facilmente immaginabili, tra cui le complessità dei controlli e delle verifiche circa numero effettivo delle visite, senza addentrarsi sugli aspetti fiscali.

Se l’ipotesi accusatoria verrà confermata, vorrà dire che alla Città della Salute il censimento dei locali per la libera professione non è mai stato fatto e i dati su questo aspetto, come su altri, hanno falsato il quadro della sanità piemontese, condizionando anche decisioni assunte o mancate su un tema grave come quello delle liste d’attesa. Proprio a queste ultime si fa ancora esplicito riferimento quando i pm sottolineano lo “svolgimento di maggiori volumi di attività in libera professione derivante dalla mancata riduzione delle liste d’attesa”. Una riduzione che non può prescindere da un governo attento e puntuale del rapporto tra le prestazioni fornite dal servizio sanitario e quelle a pagamento. Ma se già i dati su cui lavorare sono farlocchi, difficile non pensare a una battaglia persa in partenza.

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