Tregua e pace
Juri Bossuto 07:00 Giovedì 23 Gennaio 2025
La tregua ha messo in pausa la guerra che da quindici mesi insanguina le strade di Gaza. Le telecamere di Al Jazeera sono state le uniche che hanno trasmesso in tutto il mondo la speranza del popolo palestinese nei confronti del cessate il fuoco, dello stop all’inesorabile avanzata dei carrarmati con la Stella di David.
Le immagini più drammatiche sono però quelle che hanno testimoniato il ritorno alle proprie abitazioni di chi non è morto sotto le bombe israeliane: il tragico cammino degli sfollati tra montagne di macerie che hanno preso il posto degli edifici; un viaggio in quartieri spazzati via dall’artiglieria, dal fuoco aereo, da bombardamenti che hanno cancellato del tutto il significato della parola “casa” nella Striscia di Gaza.
La Striscia ha pagato l’assalto dell’esercito di Netanyahu con oltre 46mila morti, un numero ben più consistente di feriti e l’azzeramento di intere città. Case, ospedali e infrastrutture non esistono più: Gaza oggi è quasi completamente distrutta. Donne e bambini, in questi giorni di tregua, rimarranno in gran parte a vivere in strada, oppure in qualche campo profughi con le quotidiane difficoltà sanitarie, di approvvigionamento alimentare e senza acqua. La guerra consegna al “cessate il fuoco” innumerevoli alloggi sventrati, pareti e tetti rovinati a terra, cadaveri sepolti sotto le rovine e, soprattutto, un odio profondo nei confronti degli invasori.
Da domenica, quindi, non si spara, anzi è iniziato anche uno scambio di prigionieri palestinesi, alla catena in Israele, con alcuni degli ostaggi prelevati dalle loro case in quel terribile 7 ottobre del 2023. Una pausa appesa al filo, poiché tutti gli estremisti di ogni parte non vedono l’ora di riprendere a sparare contro il nemico di sempre. Il mediatore inviato dall’amministrazione Trump non ha dubbi in merito alla fragilità di questa tregua armata e, a conferma dei peggiori presagi, giungono le dichiarazioni del leader israeliano, il quale ha ribadito, rassicurando gli alleati di estrema destra, che la guerra riprenderà a breve.
Il nazionalismo continua a dimostrarsi il male assoluto di questo mondo. Nel nome della salvaguardia della patria tutto è lecito, incluso il sacrificio di giovani vite immolate alla divinità della Guerra. Il desiderio bellicista è il paravento ideale dietro cui si nascondono importanti interessi economici: l’oligarca di turno espande il proprio impero (sempre a danno del popolo) nascondendosi dietro alle gonne dell’amor patrio.
La ragion di Stato, invece, può mostrarsi con diverse sfaccettature, ma sempre è accompagnata da una bruta forza repressiva, nonché dalla manipolazione delle informazioni diffuse a mezzo stampa. Un gruppo di potere, per legittimare l’avvio di una guerra, non ha scrupoli nell’architettare strategie idonee a scatenare il conflitto.
L’establishment, ad esempio, potrebbe piazzare cecchini sui tetti ordinando di aprire il fuoco verso i propri simpatizzanti, per poi far ricadere la colpa sugli avversari e scatenare così il finimondo; oppure venire a conoscenza di una incursione nemica rivolta contro civili e non fare nulla per fermarla, generando l’inevitabile, quanto terribile, casus belli. Ipotesi forse plausibili, così come potrebbero non esserlo, magari adatte a far parte della trama di un romanzo thriller, ma comunque così reali da ispirare autori e analisti politici.
Gaza, città nota sin dai tempi dell’antico Egitto, si affaccia sul Mediterraneo ed è al centro dell’omonima Striscia: un lembo di terra grande 365 chilometri quadrati, dalla densità di popolazione più alta al mondo. Gran parte degli abitanti sono donne e bambini, ossia coloro che hanno pagato il prezzo più alto dell’attacco scatenato dal governo israeliano dopo la cruenta irruzione di Hamas: blitz palestinese che ha colto di sorpresa i servizi di intelligence di Gerusalemme (i servizi segreti più efficaci del mondo).
La carneficina abbattutasi sui palestinesi purtroppo non è degna di attenzione da parte delle cancellerie occidentali, le quali si limitano a qualche doverosa dichiarazione di sconcerto unita all’invio di rifornimenti umanitari destinati alla popolazione (spesso bloccati al di fuori della Striscia). La strage pianificata a Gaza, al contrario, ha suscitato profonda indignazione tra gli studenti ed i cittadini che abitano all’interno dei confini del patto atlantico: una solidarietà etichettata immediatamente dalla politica con il termine “antisemitismo”.
In questa grande opera di manipolazione dell’opinione pubblica i vocaboli usati dai governi hanno il loro peso, e la confusione che costoro fanno tra “antisemitismo” e “antisionismo” è assolutamente strumentale. Infatti, in Occidente gli atteggiamenti reali di antisemitismo provengono dai soliti ambienti neonazisti e neofascisti, mentre le prese di posizione antisioniste (presenti anche tra molti israeliani di fede ebraica) appartengono ai gruppi che contestano la colonizzazione della Palestina.
Il sionismo non è da confondere con l’ebraismo, poiché si tratta soprattutto di un termine che indica sentimenti fortemente nazionalistici, di espansione coloniale, e si accompagna solitamente con l’integralismo religioso. Ideali, questi ultimi, molto distanti da quelli che animavano gli accordi di pace firmati a Oslo, nel 1993, da Yasser Arafat (portavoce dell’Olp) e Yitzhak Rabin (primo Mmnistro di Israele): ambedue assassinati da chi preferisce il canto delle armi alle voci dei bambini che giocano liberi.
La tregua, probabilmente, non sarà di lunga durata e per gli sfollati, per i sopravvissuti, si tratterà di un breve sprazzo di tranquillità: di giorni vissuti senza dover scappare dalle bombe. Toccherà ai popoli, quello palestinese e quello israeliano, il difficile compito di scalzare i politici in odore di amor patrio per riprendere le redini della pace: sostituire il nazionalismo, oggi in voga ovunque poiché alimentato dall’industria bellica, con l’unica forza che ancora può salvare questo pianeta, ossia la fratellanza