TRAVAGLI DEMOCRATICI

Referendum, voto ma non dico come. I riformisti del Pd se la fanno sotto

Sono minoranza ma guidano il partito in Piemonte e a Torino, perciò evitano lo scontro sui quesiti Cgil, lasciando soli i big nazionali. Tra equilibrismi e accuse al governo, nessuno difende il Jobs Act. A costo di ingoiare le tesi massimaliste di Schlein

Se la fanno sotto. Zitti e acquattati. Un silenzio che pesa come un macigno, quello dei riformisti piemontesi. Mentre sei big nazionali – Lorenzo Guerini, Giorgio Gori, Marianna Madia, Pina Picierno, Lia Quartapelle e Filippo Sensi – sfidano la linea di Elly Schlein opponendosi a tre dei cinque referendum promossi dalla Cgil per l’8 e 9 giugno, in Piemonte i riformisti del Partito Democratico scelgono la via della prudenza. O, per dirla con le malelingue, della pavidità. Nessuno, tra i dem piemontesi, si azzarda a seguire la strada tracciata dai compagni di corrente, che in una lettera al vetriolo hanno bollato il referendum come “un simulacro fuori dal tempo” che rischia di “distrarre dai veri problemi” e dividere il campo progressista, con la Cisl contraria alle urne e la Uil che lascia libertà di voto.

Eppure, i piemontesi fino a pochi anni fa tutti renziani non sono certo estranei al dibattito sul Jobs Act, che i referendum vorrebbero smantellare. Ma né il deputato Mauro Laus, né il segretario regionale Mimmo Rossi, né tantomeno il segretario metropolitano Marcello Mazzù si smuovono dalla trincea del silenzio o del (cauto) sostegno alla linea ufficiale. Laus, con una mossa che sa di equilibrismo, annuncia che ritirerà le cinque schede, ma non svela se voterà sì o no. Piuttosto, punta il dito contro il governo, accusandolo di sabotare il referendum accorpandolo ai ballottaggi per scoraggiare la partecipazione e far fallire il quorum – che, va detto, appare già una chimera. Rossi, dal canto suo, benedice lo sforzo referendario e giura che sul territorio non ci sono defezioni.

Medesimo refrain tra gli eletti a Palazzo Lascaris. Daniele Valle, mancato candidato governatore e consigliori politico del sindaco di Torino Stefano Lo Russo, conferma: “Nessuno ha preso posizioni pubbliche diverse da quelle ufficiali”. Alberto Avetta ritiene che “non ci saranno defezioni, Ci riuniremo, discuteremo ma la linea è quella tracciata dal partito nazionale”. Laura Pompeo, ex assessore di Moncalieri, alla sua prima esperienza in via Alfieri, allarga le braccia: “Alla fine si andrà per 5 Sì”.

Insomma, quelli che, ai tempi di Renzi, difendevano il Jobs Act come una conquista epocale sono spariti. Nessuno alza la testa, nonostante molti di loro occupino ancora ruoli chiave nella segreteria regionale e provinciale. Un immobilismo che non passa inosservato, tanto da attirare le stilettate di Matteo Renzi. “Non cambio idea per un seggio, quella si chiama abiura”, ha tuonato il leader di Italia Viva, con un attacco che sembra diretto anche al presidente dem Stefano Bonaccini, padre chissà quanto ancora rioconosciuto della corrente riformista. Bonaccini, dopo voci che lo davano favorevole all’astensione, ha corretto il tiro: “A votare bisogna andarci sempre”. Ma, come i suoi colleghi piemontesi, non si sbilancia su sì o no. Una cautela che gli costa cara: la leadership della minoranza dem sembra ormai nelle mani di chi, come i sei firmatari della lettera, ha avuto il coraggio di esporsi.

In Piemonte, invece, i riformisti restano nell’ombra. Altro che hombre vertical, ricordano piuttosto quelle sagome dei nani che si allungano quando il sole cala all’orizzonte. Paura di Schlein, che ha fatto dei referendum una bandiera per dare una più decisa sterzata massimalista? Un partito che si ritrova a essere cinghia di trasmissione della Cgil in una sorta di ribaltamento storico. O si tratta di un evidente imbarazzo verso chi potrebbe rinfacciare loro il passato? Di certo, il silenzio parla più di mille parole. E, in un partito che si dice plurale, suona come una resa.

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