La Torino che (forse) verrà

Le politiche statunitensi sono il riferimento di gran parte dell’attività legislativa del nostro Parlamento. Naturalmente, come sempre accade negli episodi emulativi, in Italia si tende a copiare il peggio, non il meglio, della produzione delle norme a stelle e strisce: nelle aule parlamentari romane viene infatti ignorato il modello liberale che regolamenta l’informazione, e la libertà di opinione, mentre si copia sistematicamente quello iperliberista, di cui sono ostaggio sia le riforme inerenti la Sanità che quelle riguardanti il mondo del lavoro e l’urbanistica post industriale.

Torino, a quanto pare, ha scelto di praticare gli stessi percorsi già intrapresi da città come Boston, Detroit e molte altre abbandonate dalle fabbriche a causa della delocalizzazione selvaggia. Città paralizzate, in balia di istituzioni elettive incapaci di superare l’invalidante affanno di cui sono vittime le metropoli post industriali. L’immobilismo politico locale, nonché l’emarginazione di amministratori alla Sanders (poiché ritenuti troppo a Sinistra), conduce buona parte di quelle popolazioni americane a votare Trump, spezzando così l’antica fiducia dei lavoratori verso i Democratici.

Il destino dei torinesi è affidato a investitori internazionali, a sponsor, quindi a una sorta di neocolonialismo moderno, anziché a programmazioni sostenibili e incentrate sul rilancio economico della città. Il numero crescente di senza tetto, i cui accampamenti di cartone sono presenti in gran parte del centro storico cittadino (compresi luoghi di richiamo per turisti come piazza San Carlo e Palazzo Carignano), è il segnale più preoccupante per il capoluogo piemontese, poiché da una parte raffigura l’assenza di un piano fattibile di intervento di carattere sociale, e dall’altra il disinteresse assoluto dell’amministrazione nella cura delle piazze e dei portici.

La periferia soffre per la chiusura di molteplici servizi, in primis quelli sociali, e riversa la propria rabbia su quella che individuano come l’ennesima prova della marginalità del proprio territorio: la presenza nelle piazze, come nei parcheggi, dei camper abitati da nomadi (purtroppo, non sempre attenti nel rispettare beni comuni e comunità stessa). La politica generalmente asseconda i cittadini nell’individuazione di utili capri espiatori, gettando di continuo benzina sul fuoco che causa sovente incendi catastrofici per la tenuta del tessuto sociale.

Le soluzioni per uscire dall’impasse in cui ristagna il capoluogo piemontese non possono essere incentrate esclusivamente sull’uso dei fondi PNRR, sovente destinati a progetti inadatti alla costruzione di una futura resilienza cittadina, e neppure sull’arrivo del milioncino di euro promesso da Stellantis (leggesi FIAT) per finanziare la storica festa patronale di San Giovanni.  La sponsorizzazione, concessa per pubblicizzare la nuova versione della Panda (prodotta all’estero), mette certamente le basi per prossimi investimenti dell’ex azienda automobilistica di Mirafiori nella sanità privata torinese.

La calata del business su Torino, a cui non è detto segua la produzione di beni e l’offerta di posti di lavoro, è iniziata proprio dalla Sanità. Il maggior investimento nel settore sanitario porta il nome “Cittadella della Salute”: struttura destinata a sostituire il più grande ospedale pubblico del Piemonte (le Molinette) con un nuovissimo edificio costruito tramite un financial project (il privato finanzia la costruzione e diventa gestore dei servizi del nuovo ospedale) ed edificato su ex terreni FIAT

L’ondata di aggressione al bene comune sta raggiungendo il suo apice. Il maremoto non ha colpito soltanto le strutture ospedaliere, ma pure i Parchi cittadini: dopo la cementificazione annunciata della Pellerina, e del Meisino, ora è arrivato il turno di Piazza d’Armi. Il Parco Cavalieri di Vittorio Veneto è da sempre soggetto a continue erosioni di porzioni verdi, sin dai tempi dell’inspiegabile scelta di costruire l’eliporto sul lato prospicente corso Monte Lungo. Una struttura commerciale dall’estesa superficie affiancherà presto le opere olimpiche realizzate nel 2006, poiché la sede provvisoria di vendita dei gadget legati alle ATP diventerà fissa: progetto nato in Giunta e annunciato senza interpellare minimamente cittadini e istituzioni decentrate.

Lo sport a Torino è fonte di reddito per alcuni, particolarmente quando coinvolge i grandi impianti comunali assegnati in gestione “sociale” a terzi, grazie a una sorta di “balnearizzazione” di fatto delle strutture conferite per decine di anni, e sempre alle medesime realtà: società che considerano abitualmente il patrimonio sportivo al pari di una proprietà privata. Convinzione che alcuni gestori accompagnano assegnando priorità piena all’aspetto economico, rispetto alle attività sportive a tariffa comunale destinate ai cittadini (come ad esempio la scelta fatta dai concessionari di un impianto natatorio di aprire hamburgherie e ridurre al contempo corsie all’uso pubblico).

Meno industria, quindi, e maggiore povertà sociale. La Torino precaria dei riders, veloci sulle loro biciclette per porate piatti e piattini direttamente nelle abitazioni anche in pieno inverno, sembra poter offrire (alla causa del bene comune) esclusivamente la disponibilità ad esporre il proprio patrimonio (quel che ne rimane) agli attacchi corsari della speculazione, nonché l’offerta di qualche posto letto sotto i portici del centro storico. 

L’attesa di una classe politica che sappia pensare sul lungo periodo, e che possieda un pizzico di fantasia nella ricerca di soluzioni non consistenti nello scaricare i nodi inestricabili al terzo settore, è oramai spasmodica.

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