SACRO & PROFANO

Laici tra disagi e "prese in giro". Non disturbare il manovratore

Nel suo intervento al clero di Torino e Susa, Repole propone una rilettura dell'identità sacerdotale e del ruolo dei fedeli, ma non affronta i veri nodi: mancato ascolto e decisioni unilaterali. Una Chiesa ridotta a cantiere di esperimenti senza un progetto chiaro

L’intervento del cardinale Roberto Repole in chiusura dei lavori della due giorni del clero interdiocesano di Torino e di Susa merita di essere attentamente letto e interpretato perché, nel complesso, abbastanza cerchiobottista ed autogiustificante, così come da un po’ di tempo ci ha abitato nelle sue esternazioni. Sta accadendo infatti qualcosa di strano.

Quelli come Repole, quando non erano al potere ma solo insegnavano teologia, fecero una guerra a Benedetto XVI quando nel discorso di Regensburg invitava a dilatare i confini della razionalità e adesso invece dicono: «ci dobbiamo reinterpretare a favore di una certa ragione, di un certo uso dell’intelletto per evitare che ci spersonalizziamo». Senza comprendere che l’uso retto della ragione può incardinarsi solo nella filosofia realista di impianto aristotelico-tomista, mentre loro sono portatori di uno storicismo ermeneutico, incapace di vero ancoraggio alla realtà.

Il cardinale se la prende anche con il concetto di «analogia» accusando di stupidità chi ha obiettato il raffronto con altre realtà geografiche e socioculturali molto diverse dalle nostre e così pure sulla grave questione dell’identità sacerdotale che non può essere determinata solo a livello ambientale, ma deve custodire – e questo non viene detto – un nucleo cristologico-sacramentale forte, a partire dal quale solo è possibile lasciare che Cristo stesso plasmi l’umanità in modo da raggiungere tutti gli uomini cui è inviato. L’invito è a «riappropriarsi» dell’identità sacerdotale ma senza chiarire in che cosa essa consista e invitando alla «duttilità» nel ministero senza trovare sicurezza nelle norme le quali, invece, in una situazione di confusione dottrinale rimangono l’unico ancoraggio per i poveri preti.

Una domanda seria, citando Karl Rahner, è stata posta sul ruolo dei laici: «Che cosa diventano i laici quando diventano corresponsabili di comunità? Sono attratti dal ministero apostolico oppure continuano ad essere laici?» Curioso che sul punto non venga citato il Concilio Vaticano II che in Apostolicam Actuositatem (uno dei documenti conciliari meno citati e si può ben dire dimenticati), ben delinea la vocazione dei laici da esercitarsi non nelle sacrestie o nelle burocrazie ecclesiali o, come si usa oggi, nei ministeri istituiti, ma nell’ordine temporale, in famiglia, nel lavoro, nella politica, nell’animazione cristiana della società.

Una indicazione pratica è invece arrivata sui compiti precipui che spettano al vescovo: la nomina, nella persona di don Nino Olivero di un delegato specifico per il rapporto con i preti con compiti di ascolto e accompagnamento, proprio quello che è mancato nel tourbillon dei trasferimenti. Il messaggio è chiaro ed è quello di non disturbare troppo il manovratore che, secondo qualche malizioso, deve dedicarsi a tenere incontri in giro per il mondo e a coltivare il sempre sensibile mondo curiale romano.

La conclusione del cardinale è che, poiché ciò che conta sono le suggestioni, occorrerebbe fare dell’assemblea del clero un laboratorio di idee ed esperimenti etc. Insomma, un cantiere.  Dove però, come disse l’allora cardinale Joseph Ratzinger riferendosi alla Chiesa nel suo “Rapporto sulla fede”, è un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto.

A qualche corifeo dell’ultima ora hanno fatto sapere – come se non fosse ben noto – che sono arrivate all'arcivescovo numerose lamentele e lettere di protesta – di laici soprattutto – che non sono affatto mugugni o lamenti sterili come si tenta di rubricarli, ma circostanziate prese di posizione argomentate e pacate. Esse riguardano non il merito dei massicci trasferimenti di preti e accorpamenti di parrocchie, ma il metodo dove l’ascolto, tanto conclamato, non è stato affatto praticato. Anzi, si parla di vere e proprie prese in giro.

Una in particolare, fra le tante che abbiamo potuto visionare, scritta dalla comunità di una delle più importanti realtà della diocesi, ci pare esemplare di un disagio che non è solo dei preti. In essa si dice che «ci ferisce ed umilia dover constatare che le belle ed importanti parole condivise non siano state minimamente da Lei prese in considerazione. Sorge il dubbio che tutto quanto emerso negli incontri con le comunità interessate sia stata una farsa, una messa in scena nell’attesa di rendere pubbliche e attuative decisioni che erano già prese. Siamo nella situazione in cui viene sostanzialmente comunicato a noi laici di dover accogliere passivamente decisioni unilaterali assunte, in evidente contraddizione con lo spirito sinodale, con il coinvolgimento dei fedeli laici e con la corresponsabilità da Lei tracciate nella lettera pastorale alla Diocesi. Se si chiede la corresponsabilità di noi laici, allora noi laici chiediamo di essere ascoltati! Caro don Roberto, con la schietta confidenza di figli vogliamo dirLe che ci sentiamo presi in giro! E proprio da coloro che, ci insegna il Santo Padre Leone XIV, sono chiamati al servizio della nostra felicità e della nostra salvezza! Arcivescovo Roberto, siamo consapevoli del mutare dei tempi e della crisi vocazionale di cui soffre la Chiesa. Per questo e con convinzione ci domandiamo se veramente il continuo turbinio di trasferimenti, lo sradicare parroci e sacerdoti dalle realtà umane e spirituali in cui operano per renderli sempre più manager ed erogatori di servizi sociali piuttosto che testimoni e cooperatori di Salvezza, sia la strada da percorrere per aiutare a vincere le resistenze di molti alla chiamata del Signore. Se la priorità è annunciare Cristo Risorto e vivere di Lui, cosa potrà attrarre alla vita sacerdotale ed al servizio nelle comunità? Noi fedeli laici, ci sentiamo più che altro cavie di una sperimentazione socio-religiosa, riflesso di un ideologismo tutto umano, piuttosto che membra vive del Corpo Mistico, che è la Chiesa, così prepotentemente ferito».

Non sappiamo se e come l’arcivescovo dal sorriso perenne abbia risposto alla lettera di questi fedeli laici. Speriamo non l’abbia fatto con le risposte in fotocopia redatte dal segretario Roberto Beda (conosciuto come “il venerabile”) dove si parla, come al solito, del «ripensamento del nostro modo di essere Chiesa» e delle «fatiche» che esso comporta.

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È stato reso noto il calendario delle celebrazioni e degli eventi che dal 1° novembre con la proclamazione di San John Henry Newman a dottore della Chiesa fino al 13 gennaio 2026 con i battesimi nella cappella Sistina impegneranno papa Leone XIV. Si è però notato un vuoto di due settimane tra il 23 novembre e l’8 dicembre dove, secondo alcune fonti, il Santo Padre sarà in Turchia per le celebrazioni dei 1700 anni del concilio di Nicea, località che oggi si chiama Iznik nella provincia di Bursa a 130 chilometri da Istambul. Dal Vaticano non vi è stata conferma ufficiale e la notizia è stata invece data dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Potrebbe essere l’occasione non solo per la commemorazione del grande evento ecclesiale che ha dato alla Chiesa il Credo niceno, ma anche per riconfermare solennemente la divinità di Cristo a fronte di un monaco che lo ha ridotto a un maestro di umanità e dei buoni sentimenti.

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