Il Nobel per la Guerra

Un continente, sconosciuto agli europei, contava decine di tribù che vivevano di caccia e agricoltura. L’America era la terra di antichi popoli: quelli delle pianure (Piedi Neri, Sioux, Cheyenne); le tribù che vivevano sulle montagne (Nasi Forati, Cayuse, Palouse); le genti delle foreste orientali (Mohicani, Mi'kmaq, Narragansett, Shawnee, Potawatomi, Kickapoo, Menominee, Illiniwek) e infine i popoli del Sud (Apache, Pueblo, Navajo). Nazioni indigene il cui declino ha una data comune per tutte: 12 ottobre 1492.

L’arrivo della Caravelle guidate da Cristoforo Colombo segnò l’avvio di un genocidio vero e proprio. I popoli nativi americani videro le loro terre ridursi di giorno in giorno, a vantaggio di insediamenti di coloni e di fortificazioni occupate da eserciti stranieri. Intere tribù vennero massacrate, o costrette a rinchiudersi in riserve povere di cibo e risorse naturali; altre, sul finire del XIX secolo, furono invece messe alla fame dai cacciatori di bisonti, i quali sterminarono intenzionalmente gli animali da cui i “Pellerossa” traevano sussistenza.

La carneficina di bisonti venne organizzata a tavolino, per mettere alla fame i nativi, e a questa seguirono innumerevoli cariche delle “camicie blu” contro gli accampamenti delle tribù native. La guerra, anche in quell’occasione, venne portata contro donne e bambini: nessun ordine consegnato ai soldati prevedeva la possibilità di fare prigionieri (eccidio descritto magistralmente nella canzone di Fabrizio De André, Fiume Sand Creek). La belligeranza senza quartiere portata contro il popola americano (quello vero) era mossa da valutazioni prettamente economiche, oltre che dalla solita convinzione (razzista) della superiorità dell’uomo bianco. Lo scopo ultimo era quello di portare via le terre a coloro che le abitavano, e con esse le risorse naturali, per assegnarle a chi proveniva dall’Europa.

La Storia non si ripete, ma l’avidità umana è certamente una costante nei secoli. Le guerre, alimentate sempre da un maledetto spirito ipernazionalista, scoppiano per mettere le mani su qualcosa che non appartiene: voglia insaziabile da soddisfare anche a costo di migliaia di vite umane. Lo scempio a cui abbiamo assistito a Gaza, grazie a immagini che il sistema mediatico non ha potuto censurare (non accadeva più dalla guerra in Vietnam), è stato generato dal desiderio incontrollabile di appropriarsi di ricchezze altrui: terre in Cisgiordania, da assegnare a coloni fuori controllo, e materie prime (ad oggi non sfruttate) da sottrarre al popolo di Gaza.

Il governo di Gerusalemme, il cui premier è stato definito eroe dal leader statunitense, ha mostrato grande abilità nell’iniettare odio etnico nell’opinione pubblica, cosicché legittimare una guerra impari, combattuta tra un esercito fortissimo (quello israeliano) e una popolazione in gran parte inerme. Le piazze, più che le diplomazie, hanno obbligato i governi occidentali a mettere un limite alla mattanza, a fermare (si spera non solo temporaneamente) la mano armata del governo suprematista-sionista (in un processo simile a quello che mise fine all’intervento americano in Indocina). 

La pace, o meglio la tregua armata, sarà sicuramente di aiuto allo stremato popolo palestinese, così come ha già consentito di instradare la liberazione degli ostaggi israeliani (donne e uomini civili, vittime innocenti). Immaginare il futuro di quella martoriata terra è, purtroppo, impossibile. Il ritorno a casa degli sfollati è un disperato atto d’amore rivolto alla propria terra, a una città sepolta da cumuli di macerie e cancellata da mesi di bombardamenti indiscriminati. La ricostruzione pare sia stata calendarizzata, solleticando tentazioni di business milionario tra i grandi imprenditori del mattone: pronti sin da subito a costruire case residenziali, qualche albergo e a sfruttare al meglio il lungo litorale palestinese. Rimane tutt’oggi il dubbio su chi edificherà ospedali e servizi rivolti alla cittadinanza.

La Pax trumpiana, frutto di un invidiabile pragmatismo del leader a stelle e strisce, è sicuramente meglio del quotidiano spargimento del sangue di civili indifesi, ma la riproposizione (un secolo e mezzo dopo) del modello “riserva indiana” rimane una minaccia reale per le genti della Striscia (e non solo). La White House, in sintesi, ha deposto le armi dopo averle imbracciate con forza per anni, ma rimane drammaticamente aperta la questione del riconoscimento dei diritti assoluti, nonché di cittadinanza, ai palestinesi sopravvissuti alla guerra.

Per un conflitto che allenta la morsa sulle popolazioni, altri continuano e altri ancora si preparano a esplodere. Il prossimo conflitto probabilmente coinvolgerà il Venezuela, come annuncia la consegna del Nobel per la Pace (sempre più usato come una clava politica) a Maia Corina Machado: esponente aristocratico dell’estrema destra venezuelana, nonché acerrima nemica di Chávez e ora di Maduro. Il vincitore del Nobel per la Pace 2025 sta al pacifismo come Attila sta alla cura del verde pubblico: assegnazione motivata esclusivamente da ragioni di carattere geopolitico, esattamente come fu quella ricevuta da Barack Obama nel 2009.

Paradossalmente il prossimo bagno di sangue sarà giustificato da un Premio Nobel per la Pace: la politica neoliberista occidentale non pecca certo in creatività e spudoratezza.

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