Le "colpe" degli industriali

Carissimi dirigenti di Confindustria,
sabato alle Ogr a vedere i filmati sulla grande presenza dell’industria nel nostro Paese mi sono emozionato. Anche se mi dispiace non aver visto le immagini di due politici, come Donat-Cattin e Berlusconi, che hanno avuto un ruolo importante nell’economia degli ultimi 50 anni, la vostra convention, è stata molto utile e arricchente.

L’industria e gli industriali, insieme agli artigiani e ai commercianti, hanno avuto un grande ruolo  nel miglioramento del tenore di vita degli italiani, cresciuto ininterrottamente dall’Unità d’Italia sino al 1991. Nel secondo dopoguerra, con la scelta di campo occidentale da parte di De Gasperi, grazie anche alla costruzione delle infrastrutture e al fisco “umano” di Vanoni, ha saputo svolgere un ruolo importantissimo di spinta e promozione. Dopo aver superato la fase dello shock petrolifero e del terrorismo, e anche alla marcia dei 40.000,  il Paese ha continuato a crescere diventando negli anni ’80 la quinta economia mondiale. La caduta del Muro di Berlino e l’avvio dell’economia globale hanno posto condizioni nuove che il Paese ha gestito con grandi difficoltà ed errori strategici, sia a Roma che a Torino.

Maastricht ha posto fine all’epoca delle svalutazioni competitive, l’escamotage che il Paese trovava per non far pagare all’economia le sue inefficienze. Tangentopoli ha distrutto la vecchia classe politica, ha fatto crescere il ruolo dei giudici ma come ha detto Antonio Polito, da quegli anni il Paese inizia a crescere meno delle media europea. Perché? Dovremmo chiedercelo tutti. Dovrebbero chiederselo anche i giudici, perché chi ne ha pagato le conseguenze sono le aziende e il lavoro.

I nodi sono venuti al pettine. Il Paese fu costretto a liquidare le Partecipazioni Statali che comunque contenevano eccellenze industriali e produttive. Una fase che Prodi non gestì bene, anche se voi non glielo avete ricordato, una fase che indebolì il patrimonio industriale del Paese. Anche gli industriali come ha detto Castronovo, hanno le loro responsabilità. L’allontanamento di Ghidella, la fine della Olivetti, la svendita della telefonia, la delocalizzazione di una parte dell’industria verso i bassi salari. L’indebolimento dei settori trainanti, come l’auto, gli elettrodomestici e l’elettronica, hanno indebolito la manifattura italiana, gravata dal gap infrastrutturale e dalla inefficienza logistica oltre che dal maggior peso del fisco e del maggior costo della energia. La seconda Repubblica non ha saputo gestire, purtroppo, l’impatto con l’economia globale anche per la grande instabilità politica dovuto all’ostilità verso Berlusconi, l’unico che aveva visione internazionale.

Oggi però dopo il fallimento della cura Monti il Paese non conta più da nessuna parte. A Torino in quegli anni prevalse l’idea che l’industria avrebbe contato sempre di meno e si puntò tutto sulla cultura, sul loisir e sul turismo. Venticinque anni dopo i giornali, che hanno appoggiato le amministrazioni, si accorgono del declino. Ma a parlarne chiamano gli intellettuali che non se ne accorsero o che sbagliarono la cura. Neanche l’avvertimento dell’Arcivescovo che la metà della città che sta bene (tra cui Industria, banche, politici e uomini di cultura engagé) non si accorge della metà della città che sta male o quello di un umile sottosegretario che nel 2008 scopri per primo che il Pil del Piemonte stava crescendo meno della media nazionale.

C’è voluto , come hanno detto Gallina e Boccia, il nostro popolo Sì Tav, cui le imprese piccole e grandi hanno dato una mano, a mettere in moto il riscatto. In quella piazza, se si riascoltano gli interventi, c’era una vision in cui la manifattura, il turismo e il lavoro erano centrali. Ora c’è una tendenza a metter da parte  la forza di quella piazza, basta vedere l’andamento sonnolento delle Istituzioni locali che prima hanno negato l’area di crisi e ora la vogliono. Ma aver salvato la Tav è la cosa più importante di questi anni. Un’opera che vale tra lavori edili e maggiore crescita almeno 100 miliardi. Le imprese hanno due responsabilità: non si sono rinnovate a sufficienza e non hanno incalzato a sufficienza le amministrazioni. La percentuale delle aziende da Champions è ancora troppo bassa.

Torino si riprenderà solo se punterà di nuovo sull’industria, sulla ricerca e se metterà al centro le infrastrutture di trasporto che sono quelle che hanno maggiore influenza nella crescita dell’economia e se punterà su politici che conoscono i problemi, competenti e con grande capacità di governo. Certo, occorre avere il coraggio di sottolineare i propri errori e il coraggio di vedere la situazione in cui siamo.

Nel 1929 la crisi venne chiamata con il suo nome la “Grande Depressione” , l’Italia di allora ebbe la capacità di dar vita alla’Iri, Roosevelt indico il New Deal.

In questi ultimi anni, soprattutto a Torino,  si è voluto negare la crisi è così non riusciamo ad uscirne e il Pil non cresce più. Con le piazze Sì Tav abbiamo coraggiosamente dato la sveglia e salvata l’opera del futuro. Ma al 2030 occorre arrivare in piedi. Ecco perché i 7 anni richiesti dal Politecnico, l’unica istituzione che lavora al rilancio, mi sembrano troppi, ecco perché giudico insufficiente l’incontro con Gorlier In Regione. Ecco perché mi aspetto che le banche non aiutino solo le aziende che stanno bene ma aiutino a resistere le aziende che stanno faticando. Ecco perché mi auguro che Cirio e Appendino chiedano un incontro anche alla famiglia Agnelli che dall’accordo con Peugeot ha portato a casa miliardi di euro. La Fiat un po’ era patrimonio di questa città.

Con stima e simpatia,

*Mino Giachino, Sì Tav Sì Lavoro

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