Quale Chiesa racconta lo Spiffero?

Il lettore Racca critica benevolmente il nostro modo di leggere e riferire la realtà ecclesiale. La risposta di Eusebio Episcopo

Egregio Direttore,
molti anni fa ho conosciuto (mons.) Roberto Repole, essendo stato suo compagno in seminario per un anno e vicino di banco nei cinque anni di studi teologici a Torino. Quando ho saputo della sua nomina ad arcivescovo di Torino ho navigato a caso nell’etere e mi sono altrettanto casualmente imbattuto nel Vostro giornale. Ho letto con gusto e interesse gli articoli informati e puntuali di Eusebio Episcopo. Mi sono chiesto, leggendo, da quale parte stessi io. Ho conosciuto molti preti che Eusebio etichetta come “boariniani”, se mi fossi fatto prete forse lo sarei anch’io, d’altra parte sono parrocchiano di uno dei giovani sacerdoti che credo si debba classificare come tradizionalista, ammesso che girare in tonaca, dare le spalle ai fedeli e infilare qua e là qualche frase in latinorum sia sufficiente per definirlo tale. Vengo al punto.

Comprendo il taglio editoriale del giornale, che cerca di essere una voce davvero fuori dal coro. Non so chi sia Eusebio (prendo atto della sua volontà di rimanere anonimo) e non so pertanto quale vissuto di fede e di chiesa abbia. Mi sembra di capire che il Vostro giornale intenda rendere conto della presenza “esteriore” della Chiesa senza entrare nel merito delle ragioni e delle valutazioni teologiche che probabilmente pensate non vi competano o non vi riguardino. Sono consapevole della crisi epocale del cristianesimo e della chiesa che sperimento tutti i giorni nella mia vita, nella mia professione e anche nella mia famiglia. È una difficoltà di tutta la chiesa e, di conseguenza, anche di quella torinese.

Sono però convinto che la lettura delle vicende della chiesa, in questo caso torinese, debba essere più profonda di quella, passatemi il termine grossolano, solo “politica”. Ridurre le vicende di cronaca ecclesiale ad un avvicendarsi di cordate, di correnti, da quella “pellegriniana” a quella “boariniana” a quella tradizionalista (perché Eusebio non ha trovato una sigla anche per questa?). Non nego che tutto questo esista e di certo Eusebio ha occhi e orecchie in corridoi e sacrestie che io non frequento. Forse per questo posso permettermi di essere almeno un po’ utopico, sognatore e bambino.

Mi perdoni ma, da laico, non credo che la chiesa, neppure quella torinese, sia quella dipinta da Eusebio. O almeno: se la chiesa è davvero solo quella allora non mi appartiene e non le appartengo. È anche quella, non lo metto in dubbio. Altrettanto sono convinto che sia piena di donne e uomini credenti, che sia guidata e servita da preti (pellegriniani, boariniani e/o tradizionalisti) che si sforzano di vivere per il Regno di Dio. Sono un illuso? Possibile. Ma resto convinto che a chiunque entra in una chiesa (non perché sa che lì c’è Dio ma perché vuole cercarlo) alla fine poco interessi da che parte è girato l’altare, se l’organo suona meglio della chitarra, se i divorziati possono mangiare l’ostia, se si parla latino, italiano o piemontese… interessa incontrare Dio, o almeno uomini e donne di Dio, in tonaca, in saio, in jeans o comunque vogliano vestirsi. E i preti e i laici della Chiesa (anche torinese) devono fare di tutto perché chiunque varchi le sue porte, in entrata o in uscita, non resti deluso. Mi aspetto questo da un cristiano, da un vescovo, da Repole, non un programma.

Rinnovando comunque il mio apprezzamento per il Vostro modo di fare informazione e scusandomi se posso aver mancato involontariamente di rispetto. Un credente che ama sempre sperare.

Daniele Racca

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Risponde Eusebio Episcopo

Caro Racca,
la cordialità e la serietà delle sue argomentazioni, hanno indotto il direttore a chiedermi di rispondere alla sua accorata lettera, cosa che faccio molto volentieri. Secondo la sua opinione, le nostre modeste noterelle domenicali riguarderebbero la presenza «esteriore» della Chiesa non entrando «nel merito delle valutazioni teologiche», per cui le vicende ecclesiali necessiterebbero di una lettura non solo «politica» ma «più profonda», non ridotte a cronaca ecclesiale», «ad un avvicendarsi di cordate», oppure all’ascolto tendenzioso di «corridoi e sacrestie». Ci permetta, a questo proposito, di dissentire. Da attento lettore, dovrà ammettere che negli articoli settimanali non compaiono soltanto notizie o note di colore ma, proprio a partire da esse e sempre nel rispetto delle persone, non mancano – li si condividano o meno – commenti e valutazioni di natura teologica, cioè di fede. Perché, chi crede – come noi crediamo – che la Chiesa non sia una struttura sociologica di potere, ma una realtà soprannaturale, anche i pizzi e i merletti – per i quali non proviamo nessuna nostalgia – rinviano ad una visione, ad una idea di Chiesa. Può darsi che essa – come lei dice – non sia quella che descriviamo, ma mi creda caro Racca, gli si avvicina molto. Una Chiesa spesso ebbra di ideologia, chiusa nei suoi schemi, polarizzata, lontana dalla realtà, dove i giovani e il popolo se ne stanno andando. Le assicuro poi che – se pure rozza e approssimativa – la tripartizione del clero in “pellegriniani”, “boariniani” e “tradizionali” corrisponde alla realtà, anche a detta dei suoi protagonisti, e questo senza alcun intento denigratorio nei loro confronti. La polemica – quando c’è – riguarda le idee.  Così le divisioni dottrinali e sui fondamentali della fede, non si allontanano dalla situazione descritta crudamente da Enzo Bianchi.

Lei conclude la sua lettera con una perorazione del tutto condivisibile. A patto però di alcune precisazioni. È vero, chi entra in una chiesa vuole trovare Dio, ma le poniamo una domanda: quale Dio? Il Dio di Gesù Cristo incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza presente nella Chiesa, sotto le Specie Eucaristiche    o un vago teismo fatto di buone intenzioni e opere in cui Gesù Cristo diventa – come diceva il cardinale Biffi – l’occasione per parlare d’ altro in vista della realizzazione dei valori di un Regno su questa terra al quale, peraltro, già provvedono benissimo le tante Ong? Sono domande ineludibili e affatto provocatorie. Come abbiamo scritto, e lei forse saprà, vi sono dei preti che sostituiscono deliberatamente il Credo con qualche canzoncina o modificano il canone della Messa quando non ne condividono alcune espressioni.

Si comprende dal tono che non abbia in simpatia i cosiddetti tradizionalisti, ai quali forse intende ascriverci, mentre meglio ci definiremmo «tradizionali». Vede, un arguto e anziano prete torinese, diceva che prima del Concilio «non tutto era buono, ma tutto era meglio», con ciò significando che le divisioni c’erano eccome ma, alla fine, l’unità della fede condivisa, magari non «adulta» – in necessariis unitas – prevaleva. Oggi, invece – e non è colpa del Concilio, ma della sua errata dominante ermeneutica! – la confusione regna sovrana e, anche dai seggi più alti, di dottrina non si parla più, parole come anima, verità, peccato, identità, etc. sono state messe al bando. Così le etichette proliferano e dietro di esse le guerre ecclesiali, e il tanto sbandierato dialogo rimane una parola vuota.

Circa il suo antico compagno di studi, Sua Eccellenza Repole, pur delusi dall’autoreferenzialità delle sue nomine, dove ha premiato gli amici, come per papa Francesco, non abbiamo pregiudizi. Le sue omelie possiedono un afflato spirituale a cui non eravamo più abituati e perciò siamo fiduciosi. Anche il suo piano di riordino delle parrocchie, se inteso come misura organizzativa e non come cambiamento della «forma Chiesa», potrebbe rivelarsi utile. Perché infine il Signore ci sorprende sempre e poi «diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum» (Rom. 8,28).

Cari saluti e ci conservi la sua benevolenza.

Eusebio Episcopo

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