Pd o House of Cards?

Nel dibattito precongressuale del Pd affiorano con evidenza tutte le contraddizioni che hanno caratterizzato i rapporti a sinistra negli anni Sessanta dell’allora Partito comunista e tra gli intellettuali marxisti, con le istituzioni democratiche; una contraddizione che oggi rischia di trascinare con sé anche le frange più progressiste del cattolicesimo democratico. La cosiddetta “via italiana al socialismo”, sebbene pretendeva di sperimentarsi nello sviluppo, più socialdemocratico, di una concezione dello Stato costituzionale come espressione dell’interesse generale; da un altro lato, considerava la Costituzione e il regime dell’eguaglianza giuridico-politica come elementi oggettivamente in contraddizione con lo “sfruttamento” capitalistico, “quasi che quest’ultimo fosse una “illegalità” o una violazione dei “diritti civili” dell’operaio”, anziché il presupposto e la base stessa della sua condizione di lavoratore salariato e cittadino (Bedeschi).

Da questa dicotomia nasce il mito, a sinistra, della Costituzione più bella del mondo vista, quasi in chiave escatologica, strumento di realizzazione di una “più avanzata” giustizia sociale e forma di democrazia popolare. La vexata quaestio della doppiezza togliattiana, frutto della visione dicotomica di cui sopra, caratteristica della partecipazione alla vita democratica dei partiti di estrazione marxista nel secondo dopoguerra, fu, contraddittoriamente, svelata dalle critiche che il filosofo Lucio Colletti formulava contro lo stesso Partito Comunista. Infatti, per Colletti era evidente, negli anni Sessanta, che la democrazia solo politica fosse la manifestazione organica di una società fondata sullo “sfruttamento” capitalistico e che una moderna società industriale, quale sarebbe dovuto essere la società socialista, potesse essere regolata soltanto con la “democrazia diretta” e il cosiddetto “autogoverno dei produttori”. Una doppiezza che Berlinguer sviluppò successivamente, con intento salvifico, nell’idea di eurocomunismo, considerato quale modello alternativo al mondo sovietico, più adeguato a una società moderna e complessa come quella dei paesi europei.

Tuttavia, secondo lo stesso Colletti “in questa posizione si manifestava (…) una gravissima contraddizione della politica di Berlinguer, il quale da un lato (…) invocava una società socialista che riconoscesse e garantisse pienamente il pluralismo, e dall’altro lato, condannando i movimenti socialisti-socialdemocratici, proclamava che solo i partiti comunisti si ponevano il giusto problema di una trasformazione profonda della società borghese e del suo passaggio in una società diversa”. Obiettivo era sempre la trasformazione della società attraverso la realizzazione di un nuovo (si fa per dire) modello di “democrazia” e giustizia sociale. Un modello che pretendeva di superare anche quella espansione e la crescita dei diritti politici dei cittadini in relazione con i diritti sociali di cui è espressione l’art. 3 della Costituzione, insieme allo Stato di diritto “borghese” nato dopo la dittatura fascista che si affermò grazie alle lungimiranti politiche centriste che consolidarono le relazioni dell’Italia con le democrazie liberali di più antica tradizione, permisero il “miracolo economico”, l’espansione del benessere e dei diritti sociali negli anni Sessanta e, grazie all’allargamento della base democratica delle istituzioni proprio con la formula del centro sinistra, anche dei diritti civili.

La permanenza di quella doppiezza, che si manifesta nell’ambiguità rispetto alla propria identità ed agli obiettivi politici, negli anni, ha sclerotizzato la stessa ricerca morale ed intellettuale del Pci e della sinistra marxista; mentre, in particolare riguardo alla politica, lo sviluppo di nuove idee e obiettivi si è arenato nelle risacche della prassi del potere, delle correnti politiche e nelle corporazioni, accademiche, istituzionali e del sottogoverno. Una condizione elusa per quel breve periodo di tempo che aveva portato alla formazione di quell’Ulivo che aveva come valore forte e condiviso, ma a quanto pare anche unico valore, l’adesione del Paese all’Unione Europea considerata come via maestra per ammodernare il Paese.

Superata questa fase, il fallimento del Pd si può individuare proprio nella mancata definizione di nuovi valori e obiettivi che rilanciassero e consolidassero il percorso di rinnovamento avviato con l’esperienza dell’Ulivo. O meglio, si potrebbe dire, i valori esistevano, ma il Pd e il nuovo ceto dirigente non è stato in grado di farsene carico optando per relazioni orientate all’affermazione del potere delle correnti dei capi e dei sottocapi. Riemergono così gli antichi vizi e la doppiezza che oggi, attraverso l’affermarsi delle istanze populiste, affiorano nella ricerca di una risposta al declino elettorale. Infatti, nella vulgata populista di sinistra sembra che i diritti in generale delle persone e dei lavoratori, ma anche i cosiddetti “beni comuni” a cominciare da quelli ambientali o della salute, siano inconciliabili con il sistema economico e finanziario su cui si regge la nostra società. E, paradossalmente, si cerca, ancora una volta, proprio nella difesa a oltranza della Costituzione repubblicana il grimaldello per scardinare la cosiddetta società capitalista considerata causa di ogni male per definire la quale la si nasconde, rispetto al più diretto linguaggio sessantottino, dietro il termine di “liberismo” (cos’è, poi, il “liberismo”?).

In definitiva lo statuto ideologico di questa sinistra populista e antiriformista sembra proprio risiedere nella mancata soluzione della doppiezza, per così dire, “socialdemocratica”, nella quale si era spiaggiata la sinistra italiana nel secondo dopoguerra. Questo ritorno è confermato, per molti aspetti, nel tono di tanti interventi che riguardano il dibattito congressuale del Pd e l’identità politica dei movimenti populisti detti di “sinistra”, in quanto in essi si può riscontrare un ritorno tematico alle istanze dei movimenti degli anni Sessanta, velato dal linguaggio dei diritti. Infatti, si può dire che proprio ciò che caratterizzò quegli anni fu in primo luogo il “rifiuto intransigente di qualunque cultura riformistica, per una rigenerazione hic et nunc della società nel suo complesso”. Mentre si affermava il mito cinese, la “rivoluzione culturale”, che appariva come un modo per superare anche, a sinistra, le ambiguità del partito di Togliatti, tanto che, questo mito, “divenne uno dei simboli del movimento proprio perché sembrava realizzare un processo rivoluzionario totale e ininterrotto, in cui la rivoluzione metteva continuamente in discussione anche sé stessa e i risultati da essa acquisiti, per sempre nuovi balzi in avanti, per un movimento continuo che aboliva burocrazie di partito e di Stato, apparati amministrativi, corpi politici rappresentativi, cariche statuali”.

Una palingenesi, insomma, della politica e della società, di cui allora si compiaceva Jean-Paul Sartre che vedeva le “masse in ebollizione” con la loro “unità magmatica e fluida” (Bedeschi). Una palingenesi oggi evocata, si dice, per un “rinnovamento dalle fondamenta” del Pd. Posizioni che si coniugano, oggi come negli anni Sessanta, con l’aspirazione verso modelli utopistici di democrazia diretta; una aspirazione per la quale, si accredita una concezione che tende a delegittimare lo Stato di diritto in quanto espressione “borghese” e ambigua della democrazia, per propugnare una forma di autogoverno alternativa società capitalista, oggi stigmatizzata col termine di “liberista”.

La più evidente espressione di tali contraddizioni è sicuramente quella prospettata da Elly Schlein che incarna, anche nella comunicazione, il mito missionario della rivoluzione che, guarda caso, negli anni Sessanta attrasse anche molti giovani cattolici. E infatti, cosa altro vuole esprimere il novello Sartre romano, al secolo Alfredo Bettini, quando sostiene che “solo la sinistra e il cattolicesimo democratico insieme potranno suscitare nei democratici un nuovo pensiero "inappagato" facendo fronte a quel cedimento di coscienza e ideale, che porta all'"apologia" delle cose come stanno” (la repubblica 17/01/2023). Un “pensiero inappagato” che non accetta di vivere con le contraddizioni della realtà e della terra, “le cose come stanno”, a cui dice di volersi tenere ancorato, e che appare tanto quale surrogato del “movimento continuo”, dell’autogoverno e della rivoluzione permanente; mentre è evidente che l’esigenza di unire cattolici democratici ed ex comunisti in un “un pensiero critico in movimento e in sintonia con l'anelito di una nuova società” appare ancora una volta come sinonimo di eurocomunismo o, desiderio inconfessabile, di “rivoluzione culturale”.

Ma non è che si possa dire che Bonaccini, da parte sua, rappresenti un pensiero politico che abbia affrontato l’ambiguità della sinistra post-comunista per collocarsene oltre, in modo tale da aprire la strada allo sviluppo di quelle idee e contenuti di cui tutti denunciano la carenza nel dibattito congressuale. Su tali discussioni manca ancora la chiarezza su quell’ambiguità di fondo che ha caratterizzato la storia dei comunisti italiani nel secondo dopoguerra. Il superamento di tale doppiezza non potrebbe che risolversi in una trasparente assunzione dei principi della liberal democrazia (glasnost), come accade per le socialdemocrazie nordeuropee, attraverso la piena adesione allo stato di diritto “borghese” da parte della sinistra riformista (perestrojka). Mentre oggi assistiamo, al contrario, all’abbandono del riformismo la rinuncia alla realizzazione di riforme ispirate alle migliori pratiche e a modelli più evoluti e flessibili nei rapporti sociali, nelle istituzioni; con l’ambiguità nelle decisioni cruciali che riguardano le infrastrutture, i rapporti internazionali e le politiche energetiche, che vengono soppiantate dal ritorno ad una politica puramente rivendicazionista e conflittuale. Una politica, come evidenziato da Chicco Testa, che fa fare al Paese i passi del gambero attraverso una redistribuzione al ribasso per mezzo di politiche assistenzialiste e bonus elargiti con risorse scarse, destinate a far aumentare il debito. Una rinuncia che ci si auspica non rappresenti una ricaduta in una nuova forma di opposizione di sistema del “pensiero inappagato” come riesumazione della vecchia doppiezza, una condizione che relegherebbe la sinistra, e il cattolicesimo democratico, all'irrilevanza.

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