La paura e le riforme

Giorgia Meloni, convinta che le riforme costituzionali siano una condizione necessaria per rilanciare lo sviluppo del Paese, ha aperto sul tema, in particolare sulla trasformazione del nostro sistema politico da parlamentare a presidenziale o semipresidenziale, un tavolo di confronto con le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Nell’attuale forma di governo, di tipo parlamentare, il Parlamento rappresenta la volontà del popolo, il Governo detiene il potere esecutivo e deve avere un rapporto di fiducia con il Parlamento, cioè con il potere legislativo, mentre il capo dello Stato è il “garante” affinché tutto si svolga in modo regolare senza violazioni della Costituzione. Nel sistema presidenziale vi è una netta separazione dei poteri per cui non esiste alcuna prerogativa fiduciaria da parte del Parlamento, il Capo dello Stato è anche capo dell’organo esecutivo, cioè capo del Governo, e viene scelto con votazione popolare (tipico esempio Usa). Esiste la variante semi-presidenziale in cui si mantiene il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, il potere esecutivo è bicefalo (Capo dello Stato e Primo Ministro) e il Capo dello Stato viene eletto dal popolo (tipico esempio la Francia).

Come era facile prevedere le forze politiche di opposizione, in particolare il Partito democratico ed il Movimento 5 Stelle, hanno subito eretto dei muri ideologici al possibile cambiamento per timore di esporre la nostra democrazia a ipotetiche “derive” autocratiche ed autoritarie. Già nel 2013 Eugenio Scalfari, intellettuale di sinistra fondatore/direttore de La Repubblica, scriveva: “Voglio esprimere il mio assoluto e profondo dissenso da qualunque progetto di riforma semipresidenziale o presidenziale del governo, poiché non è accettabile che una persona eletta al vertice delle istituzioni poi faccia tutto ciò che gli passa per la testa”. L’avversione di Scalfari, come tuttora quella di molti esponenti politici, per lo più di sinistra, verso sistemi di governo semipresidenziali o presidenziali affonda le proprie radici nella paura di un governo forte e nel timore che l’avvento di un uomo solo al comando, grazie all’investitura diretta del popolo, possa instaurare un potere arbitrario ed autoritario. Questa paura nei confronti di un governo forte e stabile, non costantemente in equilibrio precario, è la cartina al tornasole del pessimismo strutturale, da parte di alcuni tra forze politiche, intellettuali e cittadini, sulla capacità di tenuta della nostra democrazia e dei suoi relativi meccanismi istituzionali. In sintesi, a distanza di quasi ottant’anni dall’entrata in vigore della costituzione repubblicana, molti pensano che la nostra democrazia sia ancora “debole” e quindi “scalabile” da tentazioni “autoritarie”: insomma la “ragazza”, anche se ha già 80 anni, non è ancora maggiorenne!

Come scrive Panebianco sul Corriere della Sera del 15 maggio scorso: “Sugli aspetti di «contenuto» in tema di modifica della forma di governo, vale forse la pena, in questa fase, fare una sola osservazione. Così come si rivelò alla fine perdente il tentativo di riformarla partendo dal cambiamento della legge elettorale agli inizi degli anni Novanta (nella speranza, rivelatasi infondata, che quel cambiamento avrebbe imposto una conseguente riforma costituzionale), significa commettere l’errore opposto proporre di cambiare la forma di governo senza contemporaneamente progettare una modifica della legge elettorale. O le due cose procedono insieme o si resterà fermi al palo”.

Forse anche una riforma costituzionale nella sua interezza andrebbe presa in esame, soprattutto se si legge quanto hanno scritto alcuni autorevoli intellettuali politici nel 1946: “Purtroppo – diceva don Sturzo del Partito Popolare Italiano – di statalismo l’attuale schema di Costituzione puzza cento miglia lontano… L’ingerenza dello Stato (burocrazia, partiti, deputati, commissari del popolo e chi più ne ha più ne metta) sarà tale che il cittadino dovrà cominciare a pensare come difendersi dallo Stato che si va creando”. Impietose le affermazioni di Gaetano Salvemini (Psi) che scrisse: “Ho letto il progetto della nuova Costituzione. È una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi quel mostro di bestialità (…) I comitati centrali dei tre famosi partiti di massa (Pci, Psi, Dc) si erano proposti solamente di avere nella Costituente dei servitori e non dei collaboratori”. Gravi anche le riserve espresse dallo schieramento antifascista, con Mario Paggi, del Partito d’Azione, per il quale la Costituzione era “vecchia prima di nascere”, o con Piero Calamandrei, dell’Unità Popolare, uno dei padri Costituenti, che ravvisava nei suoi colleghi “una totale mancanza di coraggio e di fantasia” poiché avevano “preferito orientarsi sui modelli costituzionali di cento anni fa, piuttosto che sulla realtà politica dell’Europa e dell’Italia di oggi”.

Anche un vestito di grande sartoria dopo anni si rammendi deve essere sostituito, parimenti la carta costituzionale, che dalla sua “nascita” ha subito, sino ad oggi, 47 modificazioni, probabilmente deve essere rivista, anche nel suo insieme “strutturale”. Trovo che ancora oggi sia attuale quanto Calamandrei affermò durante la Sottocommissione della Commissione per la Costituzione: “(…) come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti che, in Italia, in questo momento non esiste e che ancora per qualche tempo non esisterà, ma che deve invece funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità dei partiti, la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione? Cioè: qual è la forma dello Stato che meglio serve, a far funzionare un governo di coalizione, impedendo quelle crisi a ripetizione che sono la rovina della democrazia, quella rovina che, se non fosse evitata, ricondurrebbe inevitabilmente, a più o meno lontana scadenza, ad una dittatura? Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici”.

In Italia, però, nonostante si inflazioni il termine democrazia, prevale la sfiducia nei cittadini, nella loro capacità di scegliere con consapevolezza il vertice delle istituzioni, e regna la convinzione che tutti siano facilmente plagiabili da parte di “venditori di fumo” o “pifferai magici” populisti e qualunquisti. Certo che la cronaca non aiuta a non pensarla così, basti vedere il clamore mediatico che ha sollevato il passaggio di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, due ottimi professionisti dell’intrattenimento, dalla Rai all’emittente privata Discovery. Penso di non far torto a nessuno affermando che la loro attività, pur importante, come tutte le attività ludiche, non può rientrare né negli “affari di Stato” né nelle priorità dei cittadini di questo Paese. Certo che se i cittadini fossero veramente così immaturi, come una parte della politica ce li fanno apparire, ci sarebbe da stendere un pietoso velo sulla nascita dell’Italia unificata (1861) e dell’Italia repubblicana (2 giugno 1946). È difficile formulare un augurio per il nostro futuro perché, ad oggi, una cortina di nebbia lo avvolge e lo “protegge”, ma prima o poi il sole sorge e dipana la nebbia e la speranza è di trovare ragionevolezza e fiducia.

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