Pene, colpe e responsabilità
Alfredo Quazzo 15:10 Venerdì 18 Aprile 2025 0
Mi rendo conto che in questo travagliato periodo di grandi questioni di politica interna (fascismo, comunismo, pacifismo, manifesto di Ventotene…), di guerre convenzionali (Ucraina, Gaza, Libia…) e commerciali (dazi...), ciò che riguarda “solo” la qualità della vita del singolo cittadino e non le considerazioni su dove andrà a parare il genere umano nei prossimi cinquantamila anni, non meriti neanche un commento. Conscio di andare contro corrente, vorrei comunque condividere alcune riflessioni su due piccoli episodi che si sono recentemente verificati.
Il 10 aprile 2025 è apparsa la notizia che Francesca Michelon è figlia del deceduto batterista dei Pooh Stefano D'Orazio, e quindi il Tribunale ha annullato il suo testamento in favore della moglie. Negli anni ‘70 Oriana Bolletta, grande appassionata dei Pooh, sposò Diego Michelon, che al tempo collaborava come tecnico del suono nella band. Nell’83 la coppia entrò in crisi e si separò per quasi un anno. Durante quel periodo tra Oriana e Stefano nacque una relazione sentimentale che durò alcuni mesi. Quando nell’aprile ‘84 Oriana mise al corrente il batterista di essere incinta, questi chiuse la relazione. Riavvicinato dalla moglie, Diego Michelon riconobbe la nascitura Francesca come figlia legittima.
Nel 2006 Francesca, ormai adulta, venne a sapere dalla madre che Diego non era il padre naturale e, in seguito, alla prova del Dna (richiesta dallo stesso Michelon), il Tribunale di Venezia nel 2013 sentenziò il disconoscimento di paternità. Francesca contattò Stefano D’Orazio per conoscerlo anche se lui continuò a non volerne riconoscere la paternità. Lei allora si rivolse al giudice che ordinò il test del Dna al quale D’Orazio non volle sottoporsi. La legge permette il disconoscimento di paternità entro un anno dal momento in cui se ne viene a conoscenza e poiché, dalle testimonianze raccolte, risultava che fin dal 1998 Michelon sapesse di non essere il padre naturale di Francesca, i legali di D’Orazio richiesero la non validità della sentenza di disconoscimento da parte di Michelon perché fatta oltre i termini di legge e senza disconoscimento non si può intraprendere l’azione di riconoscimento. I legali di Francesca, invece, depositarono una istanza chiedendo al batterista il mantenimento retroattivo dal momento della nascita, più i danni esistenziali, per un totale di due milioni e mezzo di euro. Il 6 novembre 2020 Stefano D’Orazio morì ma la causa andò avanti fino alla sentenza del 9 aprile scorso in cui il Tribunale di Roma ha sancito che Francesca Michelon, oggi quarant’enne, è la figlia di Stefano D’Orazio. Per accertarlo, durante il processo, i giudici avevano disposto una perizia medico-legale, su alcuni reperti biologici conservati in strutture ospedaliere dove era stato ricoverato l’ex batterista dei Pooh. I giudici hanno quindi annullato il testamento pubblico del 2016 di Stefano D’Orazio a favore della moglie Tiziana Giardoni che adesso dovrà dividere a metà con Francesca l’intera massa ereditaria.
Sono convinto che negare ad un cittadino “normotipo” la possibilità di lasciare la propria eredità a chi desidera, sia una grave ingerenza della sua intima volontà di fare dei propri averi ciò che vuole. Questo principio è dettato da una idea di società che confligge significativamente con il diritto di natura insito nell’essere umano. Se un giudice annulla un testamento i casi sono due, o i giudici hanno riscontrato costrizioni nella stesura, oppure, peggio, la legge che consente l’annullamento è sbagliata. In questo caso la legge, mentre da una parte considera volontaria e non costrittiva la scelta del riconoscimento di paternità, dall’altra costringe al test del Dna per provarla anche dopo morto.
Venerdì 11 aprile 2025 la Cassazione ha reso definitiva la condanna a sei anni di reclusione per disastro colposo e omicidio colposo dell’ingegnere Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia (Aspi), nel processo per la strage del bus che il 28 luglio 2013 provocò la morte di 40 persone precipitando da un viadotto dell’A16 Napoli-Canosa. Il pullman, guidato dal fratello del proprietario dell’agenzia di viaggi, trasportava una comitiva in gita e, sulla strada del ritorno, cominciò a sbandare e ad urtare altre auto a causa della rottura dell’impianto frenante. Per bloccare la corsa l’autista si appoggiò alle barriere protettive del viadotto che cedettero facendolo precipitare nel vuoto da un’altezza di circa 30 metri. Solo dieci passeggeri si salvarono. Dalle successive indagini emerse che il pullman aveva percorso oltre un milione di chilometri e che circolava con un certificato di revisione contraffatto.
Nel gennaio 2019 il Tribunale di Avellino, in primo grado, condannò il titolare dell’agenzia di viaggi, il dipendente della Motorizzazione civile di Napoli che aveva predisposto la falsa revisione, e i dirigenti e funzionari del tronco dell’A16. Castellucci, a cui era stata contestata la violazione delle norme che garantiscono la circolazione autostradale in condizioni di sicurezza non avendo provveduto alla riqualificazione del viadotto, venne assolto da tutte le imputazioni. Due anni dopo, su ricorso della Procura di Avellino, iniziò il processo di appello in cui la Procura generale di Napoli sostenne la sussistenza del nesso di causalità tra l’omessa sostituzione delle barriere e l’incidente, decretando la responsabilità di Castellucci in quanto amministratore delegato. La tesi, accolta dalla Corte d’appello, fece condannare Castellucci a sei anni di reclusione per omicidio e disastro colposo. L’11 aprile scorso la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, respingendo i ricorsi delle difese, ha confermato la condanna a 6 anni inflitta in appello a Castellucci.
A parte il fatto che ritengo che la Procura non debba, in alcun caso, avere la possibilità di fare appello, nel dibattimento era emerso che Castellucci aveva stanziato i fondi per la sostituzione delle barriere su oltre 2200km di carreggiata (su 3000km di rete autostradale) comprese quelle presenti sul viadotto in questione. Fu il progettista che, nella fase esecutiva, valutò, in autonomia, di non sostituirla ritenendola efficiente, eppure lui non fu nemmeno indagato. Bisogna poi aggiungere che se è vero che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, deve arrivare anche in tempi “ragionevoli” e per Castellucci, entrato in carcere solo ora, a distanza di quasi 12 anni dai fatti, la pena si configura come una vendetta postuma nei confronti di un ex manager “potente” e non come un atto di giustizia.
Questi due casi, che paiono così diversi tra loro, hanno in comune comportamenti permessi dalla legge che dimostrano il non funzionamento del nostro sistema legislativo-giudiziario. Da una parte il cittadino non è mai sicuro di poter disporre dei propri averi e dall’altra deve mettere in conto di dover pagare colpe per errori non commessi. Cesare Beccaria affermava che sono le leggi che stabiliscono i reati ed è quindi chiaro che una legge “sbagliata”, anche se ben applicata, conduce ad una pena sbagliata. In Italia abbiamo la tendenza di voler normare tutto in nome della “protezione” dell’individuo: quando un’azione presuppone una scelta, invece di educare alle circostanze, preferiamo “fare una legge” e così si evitano discussioni e responsabilità. Voler normare tutto producendo troppe leggi, come avviene in Italia, rischia di generare leggi “sbagliate” in conflitto le une con le altre e di conseguenza di individuare reati che non ci sono. Il batterista D’Orazio e l’ing. Castellucci ne sono due vittime.