E LA CHIAMANO ESTATE / 1

L'estate in cui sfidai D'Alema e divenni l’ultimo segretario Pci

Era il 1987 e la federazione comunista torinese doveva scegliere il successore di Fassino. Mezzo partito stava con Ardito, all'epoca 45enne da poco ex vicepresidente della Provincia. Ma si mise di mezzo Baffino e, alla fine, anche l'altra metà votò per lui

“Me la ricordo quell’estate”. L’ amarcord inizia mentre Giorgio Ardito sta percorrendo la statale che da Ventimiglia porta a Genova. “Ho capito che ci vorrà un po’, meglio se accosto”. Lo fa davanti al cimitero di La Mortola, quello dove riposa il marchese Nico Orengo e da lì inizia a ritroso la storia di come venne eletto l’ultimo segretario del Pci di Torino. Sono passati 31 anni da quei torridi giorni del 1987: al Comunale si erano esibiti a distanza di un paio di mesi David Bowie e Madonna, a Palazzo Civico la socialista Maria Magnani Noya era appena diventata sindaco, guidando una maggioranza di pentapartito. I comunisti, dopo i dieci anni di Diego Novelli, erano tornati all’opposizione e ora cercavano il successore di Piero Fassino.
 
La resa dei conti in via Chiesa della Salute, storico quartier generale dei comunisti torinesi, si consumò alla fine di settembre, dopo una delle estati più calde all’ombra della Mole. Sotto il sole del generale agosto, i contatti frenetici tra i maggiorenti erano il segno di un epilogo tutt’altro che scontato e non bastarono i primi acquazzoni a raffreddare la tensione. “Da Roma, l’allora responsabile nazionale dell’Organizzazione Massimo D’Alema venne in direzione a proporre Rinaldo Bontempi – ricorda Ardito – ma tutte le minoranze del partito si stavano saldando attorno al mio nome e anche una buona parte del potente apparato voleva me”. La sensazione era di uno snodo cruciale.
 
Bontempi era un giovane funzionario proveniente dal Pinerolese. Guidava la pattuglia della falce e martello in Regione, mentre Ardito aveva appena concluso il proprio mandato in Provincia, dov’era stato vicepresidente, e aveva consolidato la sua posizione nel partito grazie allo strategico incarico di responsabile degli Enti Locali, affidatogli da Fassino. Le pressioni per convincere il futuro segretario al passo indietro erano fortissime: “Venne a chiedermelo anche il professor Mario Dogliani, ma io risposi sempre di no e da quel momento D’Alema me la giurò”.
 
Ebbe modo di vendicarsi, il leader Massimo, quattro anni dopo la Svolta della Bolognina quando il Pci si accingeva ad archiviare se stesso e il nome di Ardito rimase “accidentalmente” fuori dalla direzione nazionale del neonato Pds. Gli vennero preferiti Gian Giacomo Migone, Massimo Negarville e Giovanna Zincone: tre indipendenti che proprio il numero uno della Federazione di Torino aveva coinvolto in vista della nuova stagione. Un’onta insopportabile per lui. A tentare una disperata ricomposizione ci provò Davide Visani, coordinatore della segreteria di Achille Occhetto, uomo colto che aveva preferito il partito alla carriera accademica: “Ricordo che durante l’assemblea tentò di convincermi a non intervenire, a evitare strappi, assicurandomi che il segretario aveva trovato una quadra e anche io sarei entrato nella direzione – ricostruisce Ardito –. Ma ormai mi ero rotto”. Salì sul palco e dopo un duro j’accuse annunciò le proprie dimissioni che arrivarono puntualissime nei giorni successivi. “Uno dei gesti politicamente più stupidi della storia – prosegue – perché gettai la spugna e passò la vulgata che ero stato fatto fuori da D’Alema”. Gli succederà Sergio Chiamparino.
 
Ma torniamo a quattro anni prima, alla sfida contro Bontempi e il partito nazionale. “Con me si schierò la sinistra di Maria Grazia Sestero e l’ala migliorista con Magda Negri e poi c’erano Rocco Larizza, Claudio Stacchini e Beppe Borgogno”. Aveva un buon rapporto con Domenico Carpanini: “Io ingraiano di destra lui amendoliano di sinistra, spesso ci trovavamo d’accordo”. Contro Ardito, invece, oltre allo stato maggiore di Botteghe Oscure c’era la sinistra sindacalista, con la sola eccezione di Cesare Damiano. Forse per questo un aneddoto, che alcuni riportano e Ardito smentisce, racconta di un suo intervento presso Fausto Bertinotti, mentre l’allora leader cigiellino e punto di riferimento della corrente ingraiana, si godeva il mare di Dolceacqua, assieme alla moglie Lella e al figlio Duccio. “Quell’estate non avevo fidanzate, ero solo, e ricordo che rimasi a Torino” taglia corto.
 
Non si contano i protagonisti di quella stagione in auge ancora oggi e questo forse è stato uno dei principali limiti di quel Pci che trent’anni fa iniziava il suo difficile progetto di rinnovamento e trasformazione. Al centro dei dibattiti d’allora restavano i rapporti con la Fiat, già in profonda crisi, gli scandali giudiziari che minacciavano di travolgere i vertici della politica subalpina (argomento su cui Ardito si rivelò sempre un profondo garantista). A Berlino il Muro era ancora lì sebbene a qualcuno intravvedeva in quei calcinacci ai suoi piedi i prodromi del crollo. “In politica estera noi torinesi eravamo abbastanza antisovietici – afferma Ardito –. Ricordo che alla Festa dell’Unità dell’89, io ero già segretario, montammo uno sopra l’altro dei grandi mattoni grigi con su la scritta: ‘Abbatti il tuo muro’. Volevamo un mondo senza muri, senza frontiere”.
 
Il giorno dell’assemblea che elesse Ardito fu durissimo. Era il 28 settembre: “Mi trovavo seduto accanto a Novelli e a Vito D’Amico, un compagno operaio immigrato dalla Puglia, che tuttavia parlava un ottimo piemontese”. Al tavolo della presidenza sedevano Fassino e D’Alema. Un clima di tensione aleggiava nella sala di via Chiesa della Salute: gli interventi che si susseguivano servivano a disegnare la geografia di un partito spaccato in due. Tra i più duri, Ardito ricorda quello di Ferruccio Bosisio, “che invitò i compagni a non votare per me, precisando che c’erano delle motivazioni che non poteva rendere pubbliche. Un attacco talmente violento e per certi versi inspiegabile che probabilmente ebbe l’effetto contrario a quello sperato”. Contro Ardito c’era anche Luciano Violante. Al momento della conta il compagno Giorgio prevalse per un solo voto: “Era fatta”.
 
I suoi quattro anni al vertice del partito saranno ricordati per una svolta logistica prima ancora di innovazioni politiche: il trasferimento della sede dallo storico quartier generale di via Chiesa della Salute a piazza Castello: un open space sopra lo storico caffè Mulassano. “Dovetti farlo. Avevamo 9,3 miliardi di debiti e non potevo pagare gli stipendi dei funzionari. Portai il Pci al centro di Torino”. E vi eravate pure un po’ imborghesiti? “Macché! Piuttosto scoprimmo che la città non era solo Borgo Vittoria. E poi imborghesito io? Mia mamma faceva la servetta dalla famiglia Robilant in piazza Vittorio, poi diventò mondina a Trino Vercellese dove nacque mia sorella, e infine portinaia. A 15 anni sposò mio padre per cambiare vita. Si scelse un bracciante della segheria di Trino. Giunti a Torino mio padre finì in Provincia come usciere”, la stessa di cui il figlio Giorgio qualche anno dopo diventò vicepresidente e temuto assessore al personale.
 
Tra gli aspetti più controversi di quella torrida estate dell’87 resta l’atteggiamento di Fassino, il segretario uscente per cui il partito aveva in serbo una brillante carriera nello stato maggiore nazionale. “Ricordo al momento della mia elezione un suo gesto d’intesa dal tavolo della presidenza, mentre D’Alema accanto a lui, era torvo. Ma non ho mai capito se abbia iniziato a tifare per me prima o solo dopo la mia elezione”.

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