SACRO & PROFANO

La Messa è finita. Nelle banalità

Un recente libro attesta, con abbondanza di analisi e di dati, la progressiva diserzione dalle celebrazioni eucaristiche, complice una liturgia sciatta e "mondana". Il decennale dell'episcopato di Arnolfo a Vercelli: un bilancio con poca luce e tante ombre

L’arcivescovo metropolita di Vercelli, monsignor Marco Arnolfo, ha rilasciato un’intervista ricorrendo il decennale da quando siede sulla cattedra di Sant’Eusebio. Il bilancio che ha tracciato pare positivo ma non sono in pochi a pensare invece che il suo episcopato – al di là e oltre il Covid – abbia segnato uno dei punti più bassi mai raggiunti dalla diocesi vercellese, con due sole ordinazioni autoctone, un clero vecchio e stanco, delle comunità pastorali sempre più senza pastori (e senza fedeli) e il ritorno di una pastorale stile Anni Settanta i cui refrain sono ossessivamente riproposti senza alcuna fantasia. La verità è che Arnolfo appartiene al gruppo dei vescovi voluti e imposti da quello che fu uno dei più  esperti navigatori di ogni stagione ecclesiale, il cardinale Severino Poletto (1933-2022) il quale, quando si trattava di nomine episcopali, era imbattibile e sapeva sfiancare Roma con ogni mezzo pur di far passare i suoi che occupano, o hanno occupato, le sedi di Alba – prima con Giacomo Lanzetti e poi con Marco Brunetti –, Cuneo con Piero Delbosco, Biella con Gabriele Mana, Casale con Alceste Catella, Asti con Francesco Ravinale, per non parlare di Guido Fiandino, l’eminenza grigia torinese e, appunto, Vercelli con Arnolfo. Alcuni sono, come il cardinale defunto, poveri di titoli accademici, teologicamente modesti, progressisti nel profondo ma con moderazione. Tutti però, consci dei propri limiti culturali, sempre soccombenti e intimoriti di fronte a quei “teologi” che nelle loro diocesi o altrove vantino o millantino una maggiore preparazione teologica. Il criterio di scelta era, ufficialmente, il “pastoralismo” e alcuni di loro, effettivamente, restano e sono ancora dei buoni parroci secondo il modello oggi in voga, dove la Chiesa gestisce attività secolari con stile secolare: assistenza, turismo, accoglienza, volontariato sociale ecc., attività in cui il prete tradizionale non serve in quanto prete tradizionale ma si deve distinguere come leader e organizzatore.

Arnolfo, catapultato dall’oratorio di Orbassano dove faceva molto bene alla cattedra di Vercelli, nei suoi dieci anni di episcopato, stretto tra la virgo plus quam potens e la virgo potens non ha, come manzonianamente suol dirsi, «spiantato Milano», ma non ha nemmeno saputo valorizzare quelle sane tradizioni ancora vive nella diocesi eusebiana. Insomma, non ha fatto crescere il nuovo e si è inimicato il vecchio.  Adesso, insieme al desiderio dell’auto elettrica e dei pannelli solari, lo attendono ancora tre lunghi anni prima di tornare nella conurbazione torinese, da dove forse non avrebbe dovuto uscire e dove avrebbe sicuramente fatto fruttificare meglio i suoi carismi. Da notare che nell’intervista non compare mai non solo il nome di Gesù Cristo, ma nemmeno un richiamo al soprannaturale che è poi quello che la gente – in tempi di deserto spirituale – invoca dalla Chiesa. Il suo Gesù è poi tutto umano. Si vede proprio che Enzo Bianchi non ha seminato invano. Al quale però – suprema ironia della sorte – proprio Arnolfo, causa la pavidità di alcuni, dovette comunicare i provvedimenti vaticani che lo allontanavano da Bose! Si potrebbe concludere che Arnolfo, pastoralmente e teologicamente stinto, appare, come i suoi confratelli vescovi piemontesi, superato dalla storia ma anche dal mercato dell’auto.

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La frequenza alla Messa domenicale rappresenta il più significativo indicatore della partecipazione del cristiano alla vita della Chiesa che – come sappiamo – vive dell’Eucaristia e la costituisce. Un tempo, non molto lontano, la scarsa presenza alla Messa domenicale era considerato il primo sintomo di una poco efficace pastorale. Oggi sentiamo vescovi e preti affermare tranquillamente che andare a Messa nei giorni festivi – la Messa quotidiana anche per questi ultimi è ormai diventata un optional – non è peccato ma che anzi è meglio avere cristiani «veri, adulti e consapevoli piuttosto che chiese affollate di devoti i quali magari sono pure «indietristi». Il risultato, al netto dei processi di secolarizzazione che da decenni investono le nostre società, è che anche «l’eccezione italiana» è venuta meno e ci si è adeguati allo stato comatoso in cui vegetano le Chiese del Nord Europa.

Lo attesta, con abbondanza di analisi e di dati, il sociologo della religione Luca Diotallevi, professore all’Università di Roma Tre e discepolo di Niklas Luhmann (1927-1998) con un libro da poco pubblicato: La Messa sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019, editore Rubettino 2024. Nel periodo considerato, si registra un calo ininterrotto della presenza alla Messa domenicale che passa dal 37% del 1993 al 23,7 % del 2019 e che subirà poi una forte accelerazione durante la pandemia nel 2020 e 2021 per non più riprendersi. In caduta libera è la partecipazione delle donne e dei giovani e anche gli anziani che ancora vanno a Messa non saranno sostituiti quando torneranno al Padre. Lo scenario delineato da Diotallevi è quello per cui la presenza a Messa «si ridurrà a un valore prossimo al 10% della popolazione, il che in molte aree del Paese corrisponderebbe ad un valore ad una sola cifra».

Secondo lo studioso, oltre naturalmente allo stato di avanzata secolarizzazione della società italiana – e diciamo noi della Chiesa – una spinta nel senso indicato è venuto da una liturgia sempre più banalizzata e «dalla sostanziale deregolamentazione di sempre più vasti settori dell’offerta liturgica, come anche da molte soluzioni adottate dal clero nel corso del lockdown intervenute per contrastare il Covid». Il riferimento è alle chiese chiuse e alla equiparazione che vescovi e preti hanno fatto tra il partecipare alla Messa o assistervi alla televisione, oppure a praticare la preghiera individuale o comunitaria a casa e a «coltivare relazioni». Vedasi la sospensione delle Messe festive a Pinerolo decisa all’epoca dal vescovo Derio Olivero per fare «un passo indietro» o le teorizzazioni del teologo di Fossano, Marco Gallo, secondo cui «bisogna aspettare i tempi della liturgia per trasformarla in gesti più discreti, in contatti differenti». Proprio in questi giorni è stato presentato il libro di un prete sessantottino di Viterbo, don Gianni Carparelli, classe 1942, ordinato nel 1966, che reca nel titolo un invito più esplicito che mai: Smettiamola di andare a messa. Intervistato sul da farsi, il “prete di strada” ha affermato che «dovremmo trasformare la celebrazione liturgica in un momento educativo spirituale. Che sarebbe il vero rinnovamento, non quello di spostare altari candele e statue».

Del libro di Diotallevi ne ha parlato anche un sessantottino celebre coetaneo di don Carparelli, l’immarcescibile Enzo Bianchi. Anche per lui oggi le liturgie sono diventate «irrilevanti, non dicono più nulla, sono afone di parole significative e per alcuni anche incomprensibili» e non, come dovrebbero essere, «vive di parole, segni, azioni umanissime». Non dunque, secondo l’ex priore, Actio Divina ma solamente – come lamentava Benedetto XVI – operazione umana, anzi umanissima, dove imperano la parola e il fare, non il silenzio orante ma l’intrattenimento, il party, proprio come vorrebbe don Carpanelli. Quindi – se intendiamo bene – avanti con i cambiamenti e la creatività, così come da sessant’anni a questa parte. Sarebbe a dire che a un ammalato grave sottoposto a una certa terapia e visto che non migliora, anzi peggiora a vista d’occhio, il rimedio sarebbe non quello di provare a cambiarla, ma invece di continuare con dosi ancora più massicce. Per fortuna, fratel Enzo si rende conto – senza tuttavia approfondirne le cause – che mettere mano oggi alla liturgia non è proprio il momento, perché «attorno all’Eucaristia si consumano lotte, contestazioni, divisioni e scismi nella stessa Chiesa cattolica» e il tema rimane «incandescente e divisivo». Chissà perché? Manca come sempre il coraggio autocritico di dire che una riforma che non nasce da uno sviluppo organico e da una continuità sostanziale ma viene inventata a tavolino e scritta da specialisti non poteva che avere gli esiti descritti. Come disse Benedetto XVI «se la liturgia appare innanzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio».

In ultimo, la diserzione alla Messa domenicale si innesta, secondo lo studio di Diotallevi, nel quadro di una evoluzione del cattolicesimo italiano verso una «forma di religione a bassa intensità», priva di rilevanza extra-religiosa in campo politico, economico, scientifico e accademico, fatto salvo il dedicarsi ad attività caritative di volontariato. Tale dinamica evidenzia sullo sfondo un «allentamento dei legami comunitari di tipo ecclesiale a vantaggio di una deriva congregazionalista e di democratization of religion» in cui – diciamo noi – non è possibile non scorgervi l’approdo pseudo-sinodale verso cui la Chiesa pare avviata senza convinzione.

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