TRAVAGLI DEMOCRATICI

Jobs Act ultimo baluardo renziano. "Così il Pd liquida il riformismo"

Landini e la Cgil aprono il fuoco, Conte cavalca il referendum e la Schlein tergiversa e non sa che fare. Borghi (Iv): "Lo spazio per modernità e giustizia sociale si è definitivamente chiuso. Che ci fanno ancora dentro al partito?" I travagli di Guerini, le cautele di Orfini

È l’ultimo scampolo di riformismo rimasto e ora il Pd si appresta a disfarsene. Il Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dieci anni fa da Matteo Renzi, è un terreno minato per il partito di Elly Schlein. Se Giuseppe Conte ha già firmato il quesito referendario della Cgil, la segretaria dem tentata dallo spazzar via uno dei baluardi dell’era dell’ex “rottamatore” gioca sull’ambiguità: «Ogni iniziativa del sindacato la guardiamo con grande attenzione, nel rispetto della sua autonomia. Chiaramente mi aspetto che tante e tanti del Pd daranno una mano in quella raccolta». Sa che all’interno del Pd una parte, seppur minoritaria, non è affatto disponibile a mettersi al traino di Maurizio Landini e del leader dei 5 Stelle.

«Il Jobs Act fu, prima ancora che il referendum costituzionale, il terreno ideologico sul quale la “sinistra tradizionalista” si raggrumò per prendere la sua rivincita contro il riformismo di Matteo Renzi», scrive sui suoi social il senatore Enrico Borghi, capogruppo a Palazzo Madama di Italia Viva. «Oggi la “old Left” italiana ha davanti a sé due strade perfette per liquidare ciò che resta del riformismo dentro il Pd: la prima – argomento il parlamentare piemontese – è il pacifismo, con la rincorsa demagogica e populista di una piattaforma impugnata da Conte come in passato lo fu da Capanna o Bertinotti. La seconda, è, appunto, il lavoro: mastice identitario e ideologico perfetto su cui il referendum lanciato da Landini è l’ideale “redde rationem” nei confronti della stagione riformista. Che poi queste due impostazioni consegnino alla Meloni una straordinaria rendita politica, importa poco o nulla al Nazareno. Ciò che conta è regolare definitivamente i conti». I renziani sembrano confidare poco nella “resistenza” che potrebbe manifestarsi nel gruppo dirigente dem: «A nulla serviranno gli sforzi dall’interno: quello spazio politico del riformismo e dell’innovazione che lega modernità e giustizia sociale nel Pd si è definitivamente chiuso. Per non mandarlo anche in esilio dalla politica italiana, resta solo una opzione: riorganizzare un centro riformista, partendo dagli Stati Uniti d’Europa», conclude Borghi.

Finora Schlein ha evitato di schierare ufficialmente il partito perché non è un mistero che sul punto tra i democratici le posizioni sono “articolate” e nel Pd non sfugge a nessuno che la posizione di Conte può essere letta anche alla luce di questo dato. Come sull’Ucraina – è il ragionamento – il leader 5 stelle prova a scavalcare il Pd a sinistra, contando sul fatto che i democratici dovranno tenere inevitabilmente una linea più prudente. Linea che, non a caso, viene illustrata da Matteo Orfini, che da ex presidente del partito sa quanto sia opportuno evitare mosse impulsive su argomenti del genere: «Non credo che questo referendum sia tema da affrontare in campagna elettorale, immagino ci sarà una direzione. È del tutto evidente che è un argomento sul quale ci sono nel Pd opinioni differenti, si farà a tempo debito una discussione negli organismi dirigenti e assumeremo una discussione comune, come facciamo sempre».

Sulla questione si è espresso anche lo stesso Renzi: «Il JobsAct, Industria 4.0, la riduzione delle tasse (Irap costo del lavoro), i veri 80 euro: le nostre misure hanno creato occupazione e aumentato i salari. Oggi la Cgil e i Cinque Stelle vogliono cancellarle con un referendum. Il Pd di allora votò quelle riforme. Il Pd di oggi sta con Cgil e Landini. Domando ai riformisti: ma che ci fate ancora là dentro? Stanno cambiando posizione su tutto. Venite con noi a costruire la casa dei riformisti. A costruire gli Stati Uniti d’Europa» ha scritto su X l’ex premier.

Intanto alcune voci iniziano a farsi sentire. «Se al posto della Schlein firmerei i referendum sul Jobs Act e sulla precarietà della Cgil? No, non li firmerei ma non mi permetto di dire quello che dovrebbe fare la nostra segretaria», ha dichiarato ieri Lorenzo Guerini, ex ministro oggi deputato, tra i capi della componente riformista. «Se al posto della Schlein avrei candidato Strada e Tarquinio? Per fortuna non sono io il segretario del Pd e penso che non lo sarò mai», ha concluso in modo eloquente Guerini.

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