“Così nacque la Torino che non c’era”

L'amarcord di Fiorenzo Alfieri. Trentacinque anni di politiche che hanno cambiato (non sempre in meglio) la città. Fedele al motto di Novelli: "Un Comune deve investire sulle coscienze"

Il passato, a raccontarlo, si rivela sempre migliore della realtà. I ricordi ingannano, la memoria è fallace, il tempo diventa indulgente. Capita anche a Fiorenzo Alfieri che, conclusa la lunga carriera di amministratore pubblico, avverte l’esigenza non tanto di fare un bilancio di mezzo secolo del suo impegno politico, in buona parte trascorso, con vari incarichi, a Palazzo Civico - bilancio che ritiene comunque positivo -, quanto piuttosto quella di raccontare la storia di una «trasformazione che ha rivoluzionato le strategie e l’immagine di Torino». Ed è proprio il capoluogo piemontese il protagonista assoluto del libro che l’ex assessore manderà prossimamente in libreria per i tipi della Audino editore: una “galoppata”, esito di uno scambio di mail con Steve Della Casa, che parte dalla Torino operaia degli anni Settanta e arriva alla Torino olimpica e dei 150 anni d’Italia, «quando tutto il mondo ha visto e conosciuto una città diversa, elegante, attiva, capace di usare la cultura come un grande strumento di attrazione».

C’è un prima e un dopo nel resoconto di Alfieri. Prima c’era una Torino in bianco e nero, città grigia e noiosa, gretta e dedita solo al lavoro: la one company town insomma, talmente arretrata sul piano culturale da non avere neppure un vero e proprio assessorato ad hoc. Poi, finalmente, nel 1975 la vittoria del centrosinistra porta una ventata di novità e di apertura, anzitutto mentale. Va da sé che le cose non stanno propriamente in questi termini, ma ad Alfieri importa segnare quel “filo rosso” che dalla stagione di Diego Novelli, quando per la prima volta varca il portone del municipio e diventa, a sua insaputa, assessore (gli è capitato spesso, è stato davvero fortunato), si snoda fino a Castellani e Chiamparino. Perché il segreto del successo che ha portato Torino a cambiare pelle nell’arco di trent’anni sta nell’approccio pedagogico dell’amministrazione comunale. Per farla breve, prima di fare la nuova Torino – la “città che non c’era”, come recita il titolo del libello – occorreva fare i Torinesi. «Se dovessi indicare quale è stato l'enzima che  più di altri ha fatto crescere la nostra Città in tutti questi anni io direi: la pedagogia», rivendica con fierezza di maestro elementare che fin dai primi giovani passi nel Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) ha operato nel sistema scolastico torinese traducendo il travaglio sessantottino in pratiche didattiche.

Missione svolta seguendo l’aurea indicazione novellina secondo cui “Un Comune deve investire non solo sulle traversine del tram e sui mattoni, ma  anche sulle coscienze”. E allora la controversa “cultura del ballatoio”, imputata alle Giunte Rosse, ha avuto il merito di levigare proprio le riluttanti coscienze dei torinesi. Nel citare gli eroi di quella stagione – Giorgio Balmas (foto) e Gianni Dolino, anzitutto – Alfieri dimentica la perfida battuta che proprio Balmas amava ripetere negli ultimi anni della sua vita: “Diciamo che io facevo cultura e Alfieri il ballatoio”, rammentando le varie Isole di Pasqua e la “serqua di saltimbanchi” di tante iniziative alfieriane. Ma toccherà, 16 anni dopo, proprio a lui succedere alla guida della Cultura cittadina.

Grandi tributi riconosce a Valentino Castellani, il sindaco che più ha saputo interpretare la voglia di cambiamento tradotto nel Piano strategico del ’98: «Ne derivò una “narrazione” condivisa di un futuro possibile». Più problematico il rapporto con Sergio Chiamparino al quale più volte ha annunciato le dimissioni, sempre ritirate. Ma la grandeur ebbe libero sfogo con le Olimpiadi e i fiumi di denaro pubblico che si riversarono in riva al Po.

E proprio all’annosa questione dei “soldi” Alfieri dedica un passaggio significativo. «La mina più insidiosa consiste nell'assioma che oggi non ci sono più soldi. Quanto c'è di finanziario in questo assioma e quanto di politico?». E mentre si autoassolve sia per il caso della nuova biblioteca progettata da Bellini e sia per il faraonico allestimento di Ronconi, il suo lascito è tranchant: «Un’ultima mina riguarda i cosiddetti sprechi che io ho sempre assimilato alle armi di distruzione di massa in Iraq: si diceva che c’erano per avere il pretesto di invadere e di distruggere. Si saccheggiano i contributi alla cultura perché ci sono gli sprechi; poi si scopre che gli sprechi non ci sono ma ormai il saccheggio è avvenuto e non si torna più indietro. Gli sprechi vanno eliminati, ci mancherebbe; ma per gestire meglio il budget, non per ridurlo. Non a caso ho collocato al primo posto la questione della fetta di bilancio che è “scientificamente” corretto assegnare alla cultura affinché ne traggano vantaggi i cittadini, le imprese, l'immagine della città. E' sacrosanto che quel budget vada utilizzato al meglio, ma innanzitutto ci deve essere».

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