SACRO & PROFANO

Un ausiliare per il nuovo vescovo

Tra le condizioni poste da don Repole per accettare l'episcopato pare vi sia la nomina di un "vice" che lo coadiuvi nella guida di Torino e Susa. La sconfitta di Brambilla. Intanto, in una diocesi ancora sotto shock e divisa si attendono le sue prime mosse

Ad una settimana dall’annuncio della nomina di don Roberto Repole ad arcivescovo di Torino, si può dire che la diocesi sia ancora sotto shock e divisa nei giudizi. Più o meno tutti convengono sul fatto che l’aver tratto il vescovo dal clero diocesano comporterà – quasi inevitabilmente – più inconvenienti che vantaggi. Anche la stessa componente “boariniana” sembra quasi smarrita rispetto ad una nomina che non si attendeva. Anzi, esso si preparava, come l’uscita del pamphlet Scisma emerso sembra dimostrare, a fronteggiare l’arrivo di un vescovo che, per quanto ben disposto, giungendo da fuori diocesi, sarebbe stato tutto da esplorare nei suoi convincimenti e nella sua visione ecclesiale.

Ora invece il gruppo che ha i suoi vertici a San Lorenzo passa, inaspettatamente e repentinamente, da un relativa egemonia sulla diocesi ad un assoluto dominio essendo diventato arcivescovo il suo più prestigioso esponente, anche se forse la loro mente meno strategica. Dotato di nessuna esperienza o pratica pastorale – come ben certificato dal suo curriculum che enumera poco altro ai suoi incarichi accademici – don Repole non ha mai fatto nemmeno il viceparroco e, nella sua parrocchia di Druento, svolge il semplice ruolo di collaboratore. Per certi aspetti, un po’ come lo fu il suo predecessore Michele Pellegrino del quale fra qualche giorno si celebreranno gli ennesimi e acritici fasti. Quella però era la Chiesa di una città e di un mondo del tutto diversi, con le chiese e il seminario ancora pieni di fedeli e di seminaristi, con un clero giovane e numeroso, con l’Azione Cattolica presente in ogni parrocchia, con religiose e religiose negli ospedali e nelle scuole, con un grande partito “collaterale” di ispirazione cristiana al governo da decenni nel Paese. Ma soprattutto si era alla conclusione del Concilio Vaticano II che, insieme all’ottimismo degli Anni Sessanta e alla vigilia del Sessantotto, avrebbe innestato nella società e nel corpo ecclesiale una formidabile carica utopica i cui esiti  costituiscono oggi il tema per ampi dibattiti ma che ai giovani appaiono remoti come le controversie teologiche post-tridentine.   

Le prime dichiarazioni dell’arcivescovo eletto non dicono molto di nuovo e appaiono scontate nei richiami alla solidarietà ma lui sa bene – almeno lo si spera – che la vera e difficile sfida del suo episcopato sarà quella dell’unità di un clero e di un laicato lacerati,  dove le «sensibilità» - così in linguaggio clericalese sono definite le opposte visioni teologiche – sembrano essere da decenni la cifra di una polarizzazione senza dialogo. Sarà questo il suo banco di prova e, cessati i giorni festivi dell’ordinazione, arriveranno ben presto quelli feriali della gestione e delle scelte e cioè del governo quotidiano. Su questo terreno – non altrove – “si parrà la sua nobilitate”.

Si capirà infatti dalle nomine, a cominciare da quella del suo successore come docente, per proseguire con il rettore del seminario e il vicario generale, se il vescovo Repole avrà l’intelligenza di portare in diocesi un vento nuovo o si limiterà a premiare i fedelissimi, nel qual caso, nonostante aperture alla città, sinodi e convegni, non cambierà nulla. Si è saputo che egli abbia posto come unica – e più che legittima – condizione per l’accettazione dell’episcopato, quella di avere un vescovo ausiliare dovendo anche guidare Susa, diocesi non soppressa ma, per questioni di 8 per mille, unita in persona episcopi. La richiesta è stata accolta e già circolano vari nomi che, per il momento, non hanno alcuna attendibilità. Tuttavia, la nomina dell’ausiliare sarà cruciale. Reprimere o “convertire” – che è poi poco cambia – lo sparuto gruppo dei tradizionalisti o dei preti in talare colpevoli di ogni nequizia non sarà difficile, più arduo convincere il clero che lui sarà il vescovo di tutti, anche di quelli che non convengono sulle sue opinioni di teologo e sulla sua visione di Chiesa e che continueranno a vederlo non come il successore degli apostoli ma come il capo di una fazione.

L’ala di sinistra del clero – ancora numericamente presente ma sempre più anziana e senza eredi – sta facendo buon viso a cattivo gioco poiché avrebbe preferito – come tutti sanno – un vescovo più marcatamente sociale. Pare che l’ineffabile monsignor Guido Fiandino abbia commentato la nomina di don Repole dall’ambone della chiesa della Crocetta limitandosi con compunzione a dire: “È un buon professore…”. Chi ha da capire, ha capito.

Dalla partita escono sonoramente sconfitti i vescovi piemontesi di origine lombarda, a cominciare dal vescovo di Novara monsignor Giulio Franco Brambilla che aveva pregato il nunzio di inviare chiunque a Torino ma non un torinese. Si avvia così al tramonto il suo episcopato, insieme alla velleità di voler riformare lo stato degli studi teologici in Piemonte da lui ritenuti – non senza ragione – di scarso livello.  Con il vescovo Repole non è infatti detto che – avendone le forze e le risorse – la facoltà torinese si renda autonoma da Milano. Sarà anche interessante vedere se i vescovi piemontesi  eleggeranno ancora come loro presidente l’arcivescovo di Torino, così come è sempre avvenuto, o vorranno cambiare. Non va dimenticato che il primo vescovo tratto dal clero “boariniano” si trova ad Asti ed è il torinese monsignor Marco Prastaro, classe 1962, ordinato nel 1988, con una esperienza come sacerdote fidei donum in Kenia per poi, tornato a Torino nel 2011, diventare vicario episcopale della città. Egli è l’unico vescovo che nel pamphlet di cui sopra viene citato – guarda caso insieme a Erio Castellucci di Modena – con favore.

È rimasto al palo poi, ancora una volta, il più “episcopabile” e brillante – nonché competente e dotato di vasta esperienza pastorale in diocesi e amministrativa a livello della Cei e della Santa Sede – dei “boariniani”. Si tratta del parroco di Santa Rita, monsignor Mauro Rivella, che molti avrebbero visto quasi perfetto per la ferula episcopale anche fuori dal circolo dei boarinerghes, così infatti, parafrasando Marco 3,17 – brano evangelico letto alla Consolata il giorno dell’annuncio! – sono conosciuti in diocesi i seguaci dell’antico rettore del seminario, don Sergio Boarino. Non è detto però che – Roma approbante – non venga recuperato dal nuovo arcivescovo.

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