RETROSCENA

Tempo da Lupi per (Noi con) l'Italia, beghe a casa dell'aspirante ministro

Come non bastasse Berlusconi ora si mettono pure gli "scentrati" del centrodestra a battere i coperchi. Samorì capeggia la fronda interna al partitino che con Toti e Brugnaro non è riuscito a raggiungere neppure l'1%. "A che titolo tratta con la Meloni?"

Homo homini lupus, anzi Lupi. Eh già, perché i ringhi che si odono dalle parti della formazione centrista della coalizione di centrodestra paiono piuttosto ululati verso le poltrone, tipici di famelici appetiti democristiani e mostrano i denti verso di lui, Maurizio Lupi.

Ieri in piazza San Pietro a celebrare i cent’anni della nascita di don Luigi Giussani, oggi il ciellino con trascorsi berlusconiani è alle prese con la poca comunione all’interno di Noi Moderati e impegnato nella (sua) liberazione da una fronda casalinga, assai fastidiosa in vista della nascita del governo di Giorgia Meloni. Governo nel quale l’ex ministro a Infrastrutture e Trasporti con Letta e Renzi (dimessosi per la nota vicenda dei rolex) confida di entrare.

Tensioni che nascono e crescono all’interno del partito di Lupi, quel Noi con l’Italia di cui è presidente e che insieme a Coraggio Italia del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro Italia al Centro del governatore ligure Giovanni Toti ha dato vita al rassemblement moderato, la cosiddetta quarta gamba dello schieramento. Arto piuttosto macilento, visto che dalle urne del 25 settembre non è riuscito neppure a raggiungere l’1%, portando comunque una piccola pattuglia di parlamentari: sei deputati (tra cui lo stesso Lupi) e due senatori, grazie alla generosità dei Fratelli d’Italia che hanno messo a disposizione dei centristi alcuni collegi uninominali blindati.

Un insuccesso che, come spesso accade, sta scatenando delusioni, frustrazioni, rimostranze e l’immancabile caccia al colpevole. Nomen omen, anche un’ormai vecchia volpe della politica come Lupi finisce preda di quelle che appaiono come effimere rivalse, ma che rischiano di agitare ulteriormente una maggioranza, già in fibrillazione per questioni assai più rilevanti rispetto a beghe da congresso ospitabile, come si diceva un tempo, in una cabina telefonica.

All’ex ministro, con forti mire e non meno probabilità di tornare ad esserlo, una parte del partito imputa con assai scarsa moderazione la causa della débâcle, ma non di meno pone il nodo della leadership e, prima ancora, la questione su chi e con quale mandato andrà al Quirinale per le consultazioni. E qui spunta, con la periodicità di una cometa di Halley Gianpiero Samorì. L’uomo che si credeva Berlusconi, per citare una delle tante definizioni, fondatore del Mir (Moderati in rivoluzione) di cui in anni lontani si ricorda un comizio a Lanciano dove giunsero tre pullman carichi di anziani ignari della loro destinazione, insomma, il rieccolo Samorì è lui a muovere la fronda (sulla cui consistenza i dubbi non sono pochi) contro Lupi. Al presidente contesta di andare “a parlare a titolo personale impegnando il partito senza avere né titolo né delega”.

Con sprezzo del ridicolo Samorì affronta la questione delle consultazioni come se Noi Moderati avesse ottenuto assai più di quel decimale che, senza i collegi blindati, sarebbe rimasto fuori dal Parlamento. Contesta, sempre a Lupi, di aver rinviato il direttivo del partito a dopo la salita al Colle e verga una lunghissima lettera che si conclude con l’autocandidatura alla presidenza, in sostituzione dell’ex e aspirante ministro, chiedendo “una netta distinzione tra chi ha assunto cariche parlamentari o assumerà cariche di governo e chi rappresenta il partito nel ruolo di presidente e vicepresidente”. Tempi da Lupi quando anche le formiche nel loro piccolo si incazzano.

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