La vittoria di Meloni, un rito di passaggio

Prendo spunto dal recente articolo di Giorgio Merlo, “Una nuova mission per i partiti”, apparso sulle colonne dello Spiffero e del quale condivido ogni parola, per contribuire all’approfondimento delle sue argomentazioni. Indubitabile che l’avvento di Giorgia Meloni al governo del Paese rappresenti, ben al di là della cronaca, un passaggio storico, anzi un “rito di passaggio” e per diverse ragioni. Innanzitutto quella largamente usata sino all’abuso – e all’inevitabile usura – dell’affermazione maggioritaria di una cultura politica di destra, per ovvie ragioni esclusa dall’arco costituzionale, contro tutte le riserve e le pregiudiziali che hanno nutrito la dialettica e la mentalità repubblicane. Evento che rappresenta l’uscita pressoché definitiva dal Ventesimo secolo italiano, una “cerimonia degli addii” alla contrapposizione fascismo-antifascismo che, per quanto persistente nei suoi valori fondamentali, rimane ed è probabile che rimarrà appannaggio di una retorica consumata dalla sua stessa strumentalità faziosa.

Su questo aspetto la sinistra italiana dovrebbe fare – nel solco già tracciato da alcuni, troppo pochi, suoi esponenti – una riflessione in linea di tendenza conclusiva. Non si tratta di mettersi il cuore in pace, perché credo che l’inquietudine sia per ogni attività umana uno stato d’animo prezioso, uno stare sempre all’erta, che consente di prevedere e prevenire pericoli e sintomi degenerativi. Si tratta piuttosto di prendere coscienza del fatto che in questi ultimi trent’anni qualcosa di nuovo è successo, anche se sotto un sole spesso rannuvolato dal disordine, dal disorientamento e finanche da una certa “commedia dell’arte”: è successo, in altri termini, che ha preso forma un arcipelago variegato di partiti, le motivazioni della cui esistenza si sono rapportate in diversa misura ai tanti rami del conservatorismo europeo. Questo processo ricostruttivo di un’identità politica, favorito anche dal confronto ravvicinato tra famiglie partitiche in seno al Parlamento di Strasburgo, non è da noi senza radici, perché di conservatori nei decenni passati l’Italia non è stata avara; è stata invece per loro inospitale in modo acerrimo: mentre i figli legittimi del marxismo, persino dello stalinismo e poi dell’eurocomunismo potevano confessarsi in pubblico e fare ammenda dei loro peccati, per ascendere in ultimo alle più prestigiose cariche istituzionali, le altrettanto legittime discendenze di quel mondo conservatore che, dall’Unità d’Italia al 1922, aveva governato il Paese, ad ogni loro uscita venivano senza indugi bollate di fascismo.

La parabola esistenziale e professionale di Indro Montanelli ne è un esempio anche drammatico. Ma pure i democristiani e certi cattolici non sono sfuggiti alla gogna accusatoria di simpatizzanti neofascisti in stile “Vogliamo i colonnelli”; sugli stessi partiti laici si è fatto gravare con perseveranza il lascito di incertezza, pavidità e impotente condiscendenza dei loro “padri” liberali di fronte al turbine mussoliniano; per non parlare di Craxi, addirittura caricaturato in orbace e labbro sporgente. Si fece un’eccezione per Andreotti al quale si perdonò – bacio con Riina escluso – l’assiduità con alcuni circoli romani reazionari, in cambio delle sue doti sfingetiche di gestore di convergenze parallele e compromessi storici, alla resa dei conti molto convenienti a chi dal governo era sempre stato escluso o vi era stato incluso nella dimensione appagante delle Giunte stabilmente o temporaneamente rosse. In questo senso coloro che si ponevano in continuità genetica con il regime del Ventennio sono stati un’importante risorsa per la sinistra, che li ha utilizzati come metro di paragone per misurare a spanne le proprie magnifiche virtù e le altrui nefandezze. E per stigmatizzare le varie alleanze di governo partitocratiche, quasi i comunisti con la partitocrazia non avessero nulla a che vedere. I compagni potevano anche sbagliare, ma i camerati no. Che sia il caso di dare un taglio a questo passato scaduto, sarebbe veramente ora. Ma non sarà mai l’ora giusta, finché nel dibattito pubblico l’opinione, ad esempio, non favorevole all’aborto o alle coppie di fatto continuerà ad essere marchiata come manifestazione di una destra incivile e quindi a buon mercato fascista.

Nel frattempo, come già detto, qualcosa è iniziato e sta andando avanti, guarda caso proprio per volontà del corpo elettorale, e procede proprio nella direzione di dare alla nozione di “destra” lo stesso diritto di cittadinanza della nozione di “sinistra”. Non solo, ma in modo tale che a questi indicatori tutto sommato generici di topografia parlamentare, corrispondano culture (progressismo - conservatorismo) che in ossequio alla “società aperta” si rispettino a vicenda. Basta oltrepassare le Alpi per toccare con mano situazioni normali di questo genere. Ciò detto, da noi un’area conservatrice con l’evidenza di un soggetto politico inequivocabile non esiste ancora. Se l’espressione non suonasse satirica, si potrebbe dire che i conservatori italiani sono “in mezzo al guado”. Nei tre decenni passati alcuni momenti hanno fatto pensare che fosse imminente il superamento del bipolarismo incompiuto, ma sono state occasioni o non colte o non coltivate con la necessaria dedizione. Emblematica fu la bocciatura che Gianfranco Fini riservò al “tavolo delle regole” proposto nel 1996 da Antonio Maccanico, in veste di presidente del consiglio incaricato: un ingresso in quella compagine di riformulazione costituzionale avrebbe sbalzato Alleanza Nazionale al ruolo di nuova destra conservatrice europea. Ma non meno significativa fu la cosiddetta “Rivoluzione liberale” di Berlusconi, che avrebbe consentito, se non si fosse fermata al lancio mediatico e bloccata per le sue contraddizioni interne, il recupero del filone conservatore inerente al pensiero di Gobetti e di molti gobettiani.

Quanto ai governi tecnici, di cui abbiamo abbondato, non sono stati forse guidati e composti da inappuntabili conservatori, che però in Parlamento trovavano solo nella sinistra dem un’ala culturale strutturata, mentre la destra si svagava o rimaneva impancata sul suo senso di inferiorità(punto di domanda) In generale, non credo sia mai esistito un governo tecnico che non fosse conservatore: credo però, nel nostro particolare, che ci siano stati governi politici che avrebbero potuto essere conservatori, ma a cui hanno fatto difetto le cognizioni e le tecniche per esserlo davvero. Perché qui sta il problema, nell’avere una classe dirigente non di alto profilo, ma semplicemente all’altezza giusta. Sicuramente tra i pochissimi nel centrodestra ad averci pensato con acume e senso prospettico spiccano Miglio, Tatarella e Baget Bozzo, tutt’e tre per varie circostanze “profeti disarmati”.

Oggi il conservatorismo italiano è un bacino fluviale, dai confini ancora imprecisati, con la sorgente del popolo che lo vota e due grandi affluenti ideali: liberalismo e comunitarismo nazionale. Quest’ultimo non solo non è in contraddizione con il primo, ma non lo è neppure con l’Unione Europea, che per realismo geopolitico è nata ed è un’unione di nazioni costitutive. Chi rimprovera alla Meloni di usare con frequenza la parola “nazione” quasi fosse una bestemmia, dimostra soltanto un grado avanzato di malafede e di immaturità democratica. Perché si tratta di una bellissima parola della democrazia, “un plebiscito di tutti i giorni”, come suggestivamente la definì Ernest Renan. Quali obiettivi per questa ipotesi di rigenerazione conservatrice? Ne individuo due, l’uno di partito, l’altro di sistema, attraverso due percorsi costituenti. È auspicabile senz’altro la fondazione di un unico soggetto politico formato dagli attuali partiti di governo e forse anche da qualche polarità in più. La strada ovviamente è irta di ostacoli, ma il progetto, se non verrà dalla consapevolezza dei leader e dei loro dirigenti, sarà la conseguenza inevitabile sul versante elettorale – e quindi più rischiosa in termini di qualità dei risultati – del necessario adeguamento del nostro sistema al modello partitico delle altre più mature liberaldemocrazie occidentali.

D’altronde, della cultura conservatrice sono componenti strutturali sia il federalismo che il presidenzialismo e sbaglia chi li reputa antitetici, perché nella reciprocità sono l’uno la salvaguardia dell’altro: decentramento amministrativo e centralismo politico, secondo la ricetta di Tocqueville estratta dal terreno della democrazia americana. Purché non la si butti solo in gazzarre per strampalati disegni di leggi elettorali e autonomie più o meno differenziate, su cui è imprescindibile ragionare in termini trasformativi, sapendo però che fuori da un ragionamento di sistema sono argomenti calati nel vuoto. Di un nuovo sistema politico c’è bisogno e di una costituzione per fondarlo. Se dentro uno Stato repubblicano, che non è un totem, ma l’organismo unificante di una società, i progetti riformatori costituzionalmente legittimi vengono ostracizzati come sacrileghi o eversivi, ciò sta a significare che quello Stato è in pessimo stato di conservazione. Perché sacrilego ed eversivo è semmai lo squilibrio, lo sbilanciamento in cui versa il rapporto vitale tra i poteri e le libertà. A questo tanti anni fa e al di là della mitologia servì l’Assemblea costituente, a dare agli italiani una visione sistematica del loro futuro. Quali che ne siano stati i risvolti nel lungo periodo delle nostre due repubbliche, questo fine sulla carta fu raggiunto, poiché in quel luogo di rinascita, predisposto anche come palestra di nuova classe dirigente, sedettero e discussero gomito a gomito le migliori intelligenze tra coloro che scrivevano di politica e coloro che la politica la facevano, in entrambi i casi dopo averla studiata e pensata. Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque. Ma quando qualche sera fa nel salotto più istituzionale della televisione pubblica il presidente La Russa ha esposto, con somma prudenza, tutte le modalità per ammodernare la Costituzione, chissà le smorfie messe su da certe anime belle! Questa, però, è una storia troppo vecchia per essere ancora ascoltata.

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