Europa nella tempesta

Europa dei banchieri, degli affari e della vendita di armi. Europa delle privatizzazioni, del carbone e dell’acciaio. Ma non Europa dei popoli.

Sino a qualche legislatura addietro, gli elettori andavano alle urne per votare un Parlamento europeo impalpabile. Molti non sapevano neppure come funzionasse l’istituzione assembleare per la cui composizione dovevano porre una croce su un simbolo di partito. Giunse poi l’era dei cosiddetti “sovranisti”, ossia di chi riteneva fosse tempo di affidare il potere decisionale alle sole nazioni, togliendolo all’Unione Europea. Il loro obiettivo era, in sostanza, quello di svuotare la struttura sovranazionale a vantaggio dei singoli Stati.

I partiti della destra più radicale, grazie all’appoggio politico garantito dal presidente statunitense Donald Trump, si schierarono con i teorici del divorzio da Bruxelles, al contempo le forze di ispirazione socialdemocratica, le stesse che ora ripongono fiducia assoluta nel nuovo Presidente Joe Biden, avviarono una campagna di denuncia pubblica nei confronti del regista occulto dello scenario disgregativo. Il cattivo, ancora una volta, secondo costoro arriva da Est ed è un russo: Vladimir Putin.

Il leader del Cremlino avrebbe, a detta dei democratici, hackerato le comunicazioni, influenzato l’opinione pubblica occidentale e destabilizzato l’assetto politico del continente. In realtà Mosca ha solo avviato proficui rapporti commerciali ad Ovest. Il gas russo alimentava, prima della guerra, il riscaldamento delle capitali appartenenti alla Nato; inoltre molti imprenditori tedeschi e italiani esportavano i loro prodotti nel vecchio cuore dell’Unione Sovietica, mentre alcuni inauguravano addirittura propri stabilimenti nelle zone industriali della capitale. Una situazione non certo gradita al mercato statunitense.

Probabilmente le vere cause del discredito maturato tra i cittadini europei nei riguardi degli apparati di Bruxelles non sono da cercare nell’instancabile opera demolitoria dello zar postcomunista, ma più banalmente in una serie di atti che hanno posto al centro di tutte le attenzioni istituzionali esclusivamente gli interessi delle lobbies capitalistiche e di quelle finanziarie. Direttive come la Bolkestein, applicata sempre a danno dei salari e mai contro le posizioni dominanti del mercato; le misure a favore delle delocalizzazioni produttive; il divieto di intervento degli Stati in aiuto alla produzione interna e la privatizzazione selvaggia dei servizi rivolti ai cittadini si sono rivelate nel tempo scelte dalle conseguenze drammatiche, da cui è derivato un enorme danno alla cittadinanza. Scelte che non riescono a essere controbilanciate dagli effetti sociali, seppur importanti, originati da una miriade di progetti dedicati al recupero delle periferie urbane.

Purtroppo i temi legati al welfare non sono mai stati tra gli obiettivi primari di Bruxelles, e la recente elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea sembrava la premessa utile per edificare finalmente un’istituzione sensibile al sociale. Speranza vana, poiché l’addio dato dal Regno Unito ai trattati istituenti l’Unione ha posto in primo piano un pericoloso precedente capace di fare da apripista ad altri Stati, da tempo insofferenti verso molte regole unitarie.

Il quinquennio in corso avrebbe dovuto segnare quindi l’epoca della vittoria sui sovranisti, ma dopo quasi tre anni dalle elezioni del Parlamento in carica è facile constatare come sia cambiata la strategia rivolta al compattamento della compagine europea. L’idea di far uso delle leve sociali, per trasformare l’Europa in un’istituzione vicina ai popoli, è tramontata a fronte della pandemia. Il governo dell’Unione infatti si è distinto, durante l’emergenza sanitaria, per aver suggerito, o meglio imposto, la linea dura a tutti i suoi membri. Censura dell’informazione e repressione, come ad esempio la sospensione dal lavoro dei non vaccinati, hanno accompagnato i protocolli segreti con cui è stata finanziata la ricerca privata del vaccino, e in seguito l’acquisto di milioni di dosi a prezzo pieno (non senza prima manlevare i produttori per qualsiasi effetto indesiderato si fosse manifestato dopo l’inoculazione).

Paradossalmente la presidente della Commissione ha creato un potente monopolio, in barba ai valori del mercato liberale, a vantaggio degli Stati Uniti: manovra impossibile da realizzare se non fosse giunto un grosso sostegno dal mondo mediatico.

Azioni che un maligno potrebbe indicare come prodromiche alla guerra, regolarmente scoppiata nel mese di febbraio scorso. I conflitti bellici obbligano alla compattezza contro il “nemico”, anche quando non è sempre chiaro chi sia e perché rivesta tale ruolo. L’unico dato certo è l’arricchimento di chi vende armi e il contemporaneo crollo economico delle famiglie alle prese con le bollette. All’informazione, ancora una volta, il compito di lanciare notizie e slogan idonei a tenere la pace lontana.

Oramai è chiaro il ruolo vitale che i media rivestono nel nuovo disegno europeo, ed è incontestabile la messa al bando di qualsiasi canale impegnato nel fornire al pubblico fotografie oggettive dei fatti. Diventa quindi difficile dare credibilità alla campagna anti-fake avviata qualche settimana fa da Bruxelles, la quale pretende di insegnare ai cittadini come discernere i dati veri da quelli falsi e a dividere le notizie attendibili da quelle farlocche. Il messaggio rivolto dall’Europa ai suoi cittadini è tutto sommato semplice: solo gli uffici stampa dei governi amici dicono la verità, mentre il resto è menzogna.

Una volta si sarebbe detto che si ufficializza la sola verità di regime, ma oggi non è lecito neppure pensarlo. L’Europa guidata dai quarantenni rampanti ha le idee chiare, soprattutto è determinata nell’impedire che si disturbi il manovratore. L’unione dei popoli difficilmente sarà realizzata, ma quella delle lobbies è in piena espansione e la corruzione, entrata prepotentemente tra i parlamentari, ne è la prova. 

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