SACRO & PROFANO

Braccio destro (e sinistro) di Repole,
con Giraudo "boariniani" uber alles

Ordinazione episcopale del vicario generale della diocesi di Torino. A lui la gestione ordinaria e le rogne. Voci sulla presenza del vescovo all'udienza papale con il Sermig. Altra stretta sulla Messa antica. Brambilla esempio della magnanimità di Ratzinger

Oggi il vicario generale monsignor Alessandro Giraudo è ordinato vescovo. Si completa così il quadro della “cabina di regia” della diocesi di Torino che – non dimentichiamolo – comprende ormai anche quella di Susa, sia pure unita in persona episcopi. In quest’anno ormai trascorso dalla nomina episcopale di don Roberto Repole sulla cattedra di S. Massimo, il canonista Giraudo si è confermato come il suo braccio operativo e forse anche qualcosa di più. Mentre l’arcivescovo tiene dietro agli innumerevoli impegni pubblici, la gestione quotidiana è affidata a lui, in particolare i rapporti, non sempre facili, con i preti che comunque ne apprezzano lo stile. Sul suo tavolo arrivano le questioni più spinose e che spesso l’arcivescovo gli delega volentieri. Adesso, dovrebbe essere la volta della promozione di altri eminenti “boariniani”. La “potentissima virgo” che sta a Vercelli è stata consultata?

Nelle ultime due settimane la diocesi torinese ha perso ben tre preti, due dei quali in età ancora relativamente giovane: don Claudio Campa di 62 anni e don Ugo Borla di 61. Mentre nel primo caso la dipartita è stato l’esito di una lunga ed invalidante malattia, nel secondo si è trattato di una morte improvvisa. Alle esequie di don Campa ha stupito l’assenza – «per impegni non modificabili» – dell’arcivescovo, ampiamente giustificata dal vicario generale, il quale è stato attentissimo ad essere estremamente sobrio e, nel contempo, a non far notare l’assenza dell’arcivescovo. Ma in che cosa consistevano questi «impegni immodificabili»? Nella presenza dell’arcivescovo all’udienza papale concessa al Sermig e al suo fondatore Ernesto Olivero alla quale ha partecipato anche l’emerito Cesare Nosiglia. Ora è più che chiaro che un’udienza papale pubblica ha il suo peso, sicuramente non paragonabile, per le categorie correnti nella Chiesa, alle esequie di un confratello, peraltro dignitosissimamente accompagnato dalla semplice ma molto bella omelia del suo compagno di corso, il vescovo di Alba, monsignor Marco Brunetti. È pure vero che farsi vedere nei Sacri Palazzi con un campione della carità come Olivero da un pontefice come Jorge Bergoglio è una mossa strategica funzionale sia ad una ipotesi cardinalizia, sia a qualunque altra possibilità, per esempio il dicastero per la dottrina della fede dove, a tutt’oggi, sembrerebbe in ribasso il nome di monsignor Heiner Wilmer. Tuttavia, ci chiediamo, con un papa che ama i pastori con l’odore delle pecore, non sarebbe stato decisamente meglio e anche più utile dire: “Santità mi scusi ma ho le esequie di un carissimo sacerdote, che lei ha conosciuto, e come pastore non posso mancare”? Non avrebbe Francesco capito e apprezzato?

Siamo di quelli che hanno ancora udito con le nostre orecchie da un prete torinese del tempo affermazioni come questa: «La messa è ascoltare la Parola e mangiare il pane su cui si è fatta l’azione di grazia: è tutto» e che «quando il presidente proclama che il pane e il vino sono consacrati ciò significa semplicemente che il pane e il vino e il popolo che li ha forniti sono stati accettati da Dio come offerte gradite». È perciò con una certa soddisfazione che abbiamo notato qualche cambiamento di accento nei giovani liturghi, per cui la Messa non è più «il banchetto dell’unità» dei loro nonni ma almeno – aggettivando tradizionalmente un sostantivo sessantottino – un «pasto sacrificale». Naturalmente ci si guarda bene dal dire che in esso avviene la trasformazione fondamentale del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo e che la Messa è – come dice il Concilio e proclamò S. Paolo VI nel Credo del Popolo di Dio – «il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari». Comunque, un passo avanti.

Enzo Bianchi ha espresso il suo motivato parere circa la necessità di «ripensare l’esercizio del primato», secondo le indicazioni della Ut unum sint di S. Giovanni Paolo II (con il contributo fondamentale di Ratzinger). Se pare condivisibile il superamento di una concezione papolatrica del ministero petrino, per la quale «ogni sternuto parrebbe dogma», e quindi l’apertura di un serio confronto storico-teologico per la corretta interpretazione del Concilio Vaticano I, meno chiaro sembra essere l’auspicato ritorno alla Chiesa del primo millennio. Questo perché anche quell’esperienza conteneva limiti e problemi, perché non si possono saltare a piè pari mille anni di Tradizione e, infine, perché l’esito, nella civiltà della comunicazione velocissima, sarebbe semplicemente la dissoluzione della Chiesa. Che forse è però quello che qualcuno vuole.

Si sta dispiegando in questi giorni la manovra di attribuire ai conservatori la responsabilità di una divisione della Chiesa che ha invece i suoi principali artefici nei vescovi tedeschi impegnati nel loro «Cammino Sinodale». Naturalmente, quello che dovrebbe essere, per la sua stessa costituzione, il garante e il promotore dell’unità della Chiesa – e cioè il papa – risulta paradossalmente indenne e nessuno ha commentato le misure durissime prese motu proprio il giorno dell’Epifania con la costituzione apostolica In ecclesiarum communione dove ha azzerato il potere del Vicario di Roma e – in perfetto stile sinodale – ha accentrato su di sé persino la nomina dei parroci.

Nel mirino è finito da giorni l’arcivescovo monsignor Georg Gänswein – reo di aver pubblicato il libro Nient’altro che la verità in cui ripercorre gli anni accanto a Benedetto XVI in qualità di suo segretario e Prefetto della Casa Pontificia. Un parroco bergamasco, già delegato per la cultura della diocesi, senza aver letto il libro, ma basandosi sui titoli dei giornali, ha affermato che esso «costituisce un atto grave» contro l’attuale papa in quanto si dedicherebbe ad «attaccare pubblicamente un confratello» e ha invitato Gänswein a ritirarlo. Avendolo noi letto integralmente – cosa che invitiamo tutti a fare – l’invito appare incredibile se non fosse allo stesso tempo ridicolo. Forse il buon prete della Bergamasca è affetto da amnesia e non ricorda più le centinaia di libri, articoli, saggi, interviste di suoi confratelli, di vescovi e persino cardinali che per decenni attaccavano ignobilmente il cardinale Ratzinger, Benedetto XVI e poi papa emerito. In ogni caso, nel libro di Georg papa Francesco non ne esce affatto male, né viene attaccato, ma semplicemente descritto come un decisionista ben determinato a usare il potere in prima persona. Inoltre, va rilevato che l’autore non risparmia nulla a quelli che vengono indicati come i supporter di Benedetto XVI e gli avversari di Francesco come i cardinali Robert Sarah e Tarcisio Bertone, anzi di quest’ultimo viene fornito un ritratto poco lusinghiero. Ciò che viene smentito dalla ricostruzione della persona che fu più vicina al papa emerito è la continuità – non solo di stile ma anche di magnanimità – fra i due papi. Ricorda monsignor Gänswein che anche molti di quelli che vengono considerati esponenti più “liberali”, per usare un termine di comprensione comune, furono promossi a ruoli importanti proprio durante il pontificato di Benedetto XVI. Tra i nomi da lui indicati vi sono i principali esponenti del fronte progressista, quali i cardinali Jean-Claude Hollerich, Luis Antonio Tagle e Matteo Zuppi e – aggiungiamo noi – di Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, uno dei firmatari della famosa Dichiarazione di Colonia del 1989 contro Ratzinger e che non gli impedì nel 2011 di essere elevato all’episcopato da Benedetto XVI. Quando si dice il sensus Ecclesiae e la magnanimità… Oggi lo stesso Brambilla è caduto in disgrazia soltanto per aver rispettosamente espresso a papa Francesco il suo pensiero. Quando si dice il temperamento…

Per rimanere a Novara, il rettore del seminario don Stefano Rocchetti ha comunicato che in esso si preparano al sacerdozio 28 seminaristi dei quali 18 di Novara, 2 di Vercelli, 4 di Biella, 2 di Acqui, 2 di Casale Monferrato e 4 stranieri di cui 2 del Togo.

Se n’è andato il cardinale George Pell, figura emblematica e coraggiosa, assai prossimo a Benedetto XVI che apprezzò molto le memorie scritte dal porporato australiano durante il processo e la carcerazione che dovette subire prima della sua assoluzione. Critico del pontificato di Francesco, Pell fu l’autore di quel memorandum a firma Demos circolato fra i cardinali la scorsa primavera. Recentemente – è stata la sua ultima dichiarazione pubblica – aveva scritto un articolo su The Spectator esprimendo forti critiche in merito al sinodo sulla sinodalità ove l’intero processo sarebbe stato truccato. Il documento preparatorio sarebbe «formulato in gergo neo-marxista» e soprattutto «ostile alla tradizione apostolica» in quanto non vi sarebbero alcuni punti fermi del pensiero cristiano come la fede nel giudizio divino, nel paradiso e nell’inferno. Per questo «la Chiesa deve liberarsi da questo incubo tossico» che è il sinodo. Parole forti che il cardinale non potrà pronunciare ma che – se fosse rimasto in vita – sarebbero sicuramente risuonate durante l’Assemblea con autentica parresia.

Tre vescovi delle diocesi svizzere di lingua tedesca – di Basilea, Coira e San Gallo – hanno scritto una lettera ai fedeli in cui affermano di ricevere lettere preoccupate circa le celebrazioni religiose e dichiarano che i cattolici «hanno diritto alle funzioni religiose che rispettano le regole e le forme della Chiesa» arrivando poi a pronunciare  verità elementari: «Voi tutti sapete che solo il sacerdote presiede validamente l’Eucaristia, concede la riconciliazione sacramentale e impartisce l’unzione agli infermi. Questo è precisamente il motivo per cui è ordinato. Questa regola di fede cattolica romana deve essere osservata senza restrizioni anche nelle nostre diocesi». Tale presa di posizione – abbastanza inusuale nella sua chiarezza – dice a quale punto sia arrivato il cattolicesimo della Svizzera tedesca dove è diffusa la “concelebrazione” dell’Eucaristia da parte degli “assistenti pastorali”, solitamente laici e donne “teologhe”. Queste ultime hanno reagito duramente alla lettera dei vescovi, arrivando a dire che essa costituisce «una tragedia teologica e umana». La presidente del consiglio sinodale di Zurigo l’ha definita «grottesca» chiedendosi come la si possa prendere sul serio da qualcuno. Da Roma tutto tace, così come sul caso Rupnik la strada scelta – lo avevamo previsto – è quella del silenzio.

Tanto per rimanere nell’ambito dell’unità della Chiesa, sembra che in primavera – se non prima – arriverà un ulteriore giro di vite sulla Messa antica che diventerà, con immensa gioia dei progressisti, quasi del tutto proibita. Il cardinale Arthur Roche, prefetto del Culto Divino – che ha tirato un sospiro di sollievo alla morte di Benedetto XVI – avrebbe pronta una Costituzione Apostolica che aspetta soltanto la firma del papa e che assesterà il colpo finale al Vetus Ordo proibendolo del tutto. I dettagli alla prossima puntata.

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