Auto elettrica, un regalo alla Cina

Quanto ci costerà in termini di inquinamento ambientale derivante dal processo produttivo, benessere sociale e competizione industriale il passaggio alla produzione di sole auto elettriche in Europa a partire dal 2035? È una domanda da porsi a meno che non si voglia far finta di non vedere il perpetrarsi dello sfruttamento umano nelle miniere africane, del Sudamerica e in Australia. Nella Repubblica Democratica del Congo è concentrata anche la produzione del cobalto, il paese detiene metà della riserva mondiale stimata in 7 milioni di tonnellate, da cui viene estratto insieme a rame e nickel. Miniere al centro di dure battaglie per il controllo dell’attività che si sommano a quelle umanitarie in quanto l’estrazione avviene con uno sfruttamento disumano della forza lavoro, in condizioni inadeguate, con alto tasso di incidenti, malattie e sfruttamento del lavoro minorile. Per quanto concerne l’industrializzazione, questa è invece sostanzialmente in mano alla Cina, che concentra il maggior numero di impianti per il raffinamento e la trasformazione e dunque, la fornitura alla filiera produttive delle batterie.

Dalla produzione mondiale di auto emerge un primo dato relativo all’acquisizione di quote di mercato, anche in Europa, da parte dei Paesi – dalla Cina a quelli dell’Estremo Oriente – che detengono, producono e lavorano materie prime necessarie ai microchip e batterie. Non a caso la cinese Byd, nata come produttore di batterie per smartphone e in meno di 20 anni diventata uno dei principali produttori di automobili elettriche al mondo, ha programmato investimenti per quasi 500 milioni di euro in miniere di litio. La società può sfruttare la presenza di alcune grandi aziende cinesi in Africa che hanno in appalto la gestione di importanti giacimenti minerari che saranno utili per la soddisfazione della domanda in grande crescita. 

Il secondo dato preoccupante e su cui riflettere è l’altissimo impatto ambientale che ha estrarre e produrre litio, cobalto e terre rare. Processi energivori e inquinanti. Le case automobilistiche stanno cercando accordi e alleanze con le società minerarie di estrazione, tra l’altro stanno studiando come estrarre, risucchiando, dal fondo marino le pietre contenenti materie prime necessarie alle batterie con l’inimmaginabile scempio dei mari. Porre al centro della transizione energetica l’auto elettrica il cui cuore è la batteria vuol dire che “anche se l’Europa si impegna a costruire batterie, la sua dipendenza dalle materie prime cinesi sarà molto superiore a quella che adesso abbiamo dal gas e dal petrolio russo”sostiene l’ex ministro Cingolani che ha ulteriormente circostanziato: “Chi possiede le materie prime, determina il mercato. E questo punto è di debolezza. Le batterie accumulano circa 300 wattora per 1 chilo di peso. Se ne dovranno produrre decine di migliaia di tonnellate per elettrificare le auto d’Europa, e i materiali per costruirle li dovremo importare”.Da dove? In larga parte dalla Cina, che oggi controlla direttamente oltre la metà della produzione di litio e terre rare necessari a produrre veicoli elettrici, ma che sta aumentando la propria influenza sui giacimenti presenti in Africa e in Sudamerica.

Di recente il Dragone ha sorpassato l’Australia nel primato di produzione mondiale di litio. Canberra si è ritrovata la concorrenza di Pechino in casa. Il più grande deposito australiano del metallo, quello di Greenbushes, è in mano alla Cina. Dietro la società proprietaria, Talison Lithium, c’è Tianqi Lithium, conglomerato con sede in Sichuan che, per mezzo delle sue controllate, nel 2018 aveva in mano il 46% della produzione mondiale di litio.

La Cina si sfrega le mani davanti alla corsa ai metalli per l’elettrificazione. In dieci anni, dal 2020 al 2030, la sola Europa punta a passare dal 3% al 25% della produzione mondiale di batterie. Il fabbisogno di grafite e cobalto raddoppierà (rispettivamente a 83mila e 610mila tonnellate all’anno). Per il litio si calcola che la domanda decuplicherà a 61mila tonnellate. 

Ma l’Europa ha pochissime materie prime presenti in Portogallo (1,3% della produzione mondiale di Litio), Spagna, Austria, Finlandia, Germania e Repubblica Ceca. E non dimentichiamo che queste materie prime servono anche per far girare le turbine delle pale eoliche. L’Europa punterebbe a essere autosufficiente per l’80% della sua produzione, bisogna però ricordare che gli esperti valutano in vent’anni il tempo necessario per mettere in funzione una miniera estrattiva.

In Estremadura la miniera di San Josè Valdeflorez, di proprietà australiana, è considerato il secondo deposito di Litio d’Europa con la possibilità di estrarre 19mila tonnellate di idrossido di litio all’anno per 26 anni, per cui sarà necessario costruire un impianto di lavorazione chimica per raffinare la materia prima. Cosa ne pensano gli ambientalisti della necessità di impianti industriali, chimici, di consumo energivoro per avere una batteria elettrica non inquinante? A cui aggiungerei il quesito: ma davvero poi il prodotto finale non è inquinante nel suo ciclo completo di vita?

Rimane la possibilità del riciclo della batteria che però è ben a valle della produzione di auto elettriche considerando un ciclo di vita dai 5 ai 15 anni di un’auto. Anche in questo caso, tuttavia, la strada non è in discesa perché dovrebbero essere considerati i problemi dei potenziali impatti ambientali derivanti degli agenti chimici utilizzati, dal consumo di energia, dalla necessità di impianti chimici per il riciclo e riuso.

Allora non serve il “giocattolino” regalato ad alcuni sindacalisti da Stellantis con il reparto recupero batterie a Mirafiori. Non basta l’ambientalismo casalingo e populista senza una politica internazionalista sullo sfruttamento umano e la dignità della persona e del lavoro. Dal nostro divano ci indigniamo per le proposte indegne che alcuni imprenditori offrono ai nostri giovani ma usiamo compulsivamente prodotti le cui materie prime costano la vita a tante persone senza diritti sociali, mentre noi ci battiamo per i nostri diritti civili. Che differenza eh!

Senza cadere nella retorica di sinistra penso che occorra una seria riflessione nel 2026 quando l’Europa sarà chiamata a valutare il percorso verso l’elettrificazione e la transizione energetica. Transizione che ha bisogno di tempi lunghi, tappe intermedie, scelte che tutelino l’occupazione, il rinnovamento tecnologico e la diversificazione industriale. Servono mutamenti condivisi, senza traumi, guardando al mercato e sapendo che non si salva la Terra pensando di creare un cielo azzurro solo sopra l’Europa.

Il mercato, i consumatori e anche lo sviluppo tecnologico verso l’elettrico ci dicono che siamo nella fase transitoria in cui l’ibrido, con il motore endotermico, autoproduttore di energia elettrica sino a sostituire per sempre più lunghe fasi di percorso stradale è oggi la via da percorrere. Insieme al fatto che i motori a benzina e diesel sono sempre meno inquinanti, richiedono meno consumi alle stesse prestazioni e quindi l’adagio banale ma vero che “chi va piano va sano e va lontano” rimane una massima saggia e applicabile.

print_icon