New York è vicina

I videomaker americani mettono spesso in rete filmati girati per le stravaganti strade di New York, ma le immagini più recenti non inquadrano manager indaffarati che percorrono a passo veloce Wall Street, ma homeless: senza tetto accampati sui marciapiedi della città al di fuori dell’isola di Manhattan.

Sui volti delle persone riprese non si leggono solamente le insostenibili difficoltà che affrontano ogni giorno, poiché a queste di aggiunge l’infinita sofferenza fisica e psicologica: testimonianza di un disagio al di sopra di qualsiasi limite umano. La telecamera inquadra individui barcollanti, altri seduti sul bordo del marciapiede, alcuni a ridosso dei muri delle case intenti a defecare, e un numero indefinito di sagome sdraiate in mezzo ai propri rifiuti nel tentativo illusorio di un isolamento dal mondo circostante.

Il passante che si reca al lavoro cammina tenendosi a debita distanza dai giacigli della comunità dei “miserabili”, mostrando l’atteggiamento solito di chi finge di ignorare il dramma che lo circonda. Il tragico panorama evidentemente non esiste neppure per le autorità cittadine, le quali (con buona probabilità) hanno scelto di individuare alcune aree destinate ad essere trasformate in ghetti: zone urbane dove “accatastare” i cittadini più fragili, permettendo loro di sopravvivere nell’indigenza assoluta.

Un disinteresse istituzionale piuttosto stupido, poiché per gli statunitensi non è così difficile finire in strada. L’imprevisto di dover lasciare forzatamente il proprio tetto può verificarsi in qualsiasi momento, basta perdere il lavoro per dire addio all’assicurazione sanitaria e all’abitazione stessa.

Nella nazione che si autoproclama paladina della Democrazia mondiale, licenziare un lavoratore è cosa facile, un percorso rapido poiché privo di ostacoli, e in assenza di un credibile sistema di welfare le conseguenze sono facilmente immaginabili. Quando il padrone di casa, o la banca in caso sia vigente un mutuo, viene a conoscenza della situazione di criticità del proprio inquilino, o del mutuatario, scatta immediatamente lo sfratto: senza neppure attendere si manifesti un’insolvenza. Fuori dall’abitazione rimane, quale unica alternativa, il cartone da posare a terra sugli sbuffi delle prese d’aria che riscaldano le stazioni della metropolitana.

Sino a qualche anno fa quelle immagini americane, ritraenti la disperazione, sembravano davvero distanti da noi, poiché appartenevano addirittura a un altro continente (in senso politico oltreché geografico). Seppur lontano dalla perfezione, il sistema del welfare italiano arginava la diffusione della povertà nel Paese, garantendo in qualche modo a tutti il livello minimo di sopravvivenza (magari non sempre dignitosa, ma raramente sconfinante nella miseria assoluta). L’uso insensato delle finanze pubbliche fatto nei decenni passati, i prestiti aperti per realizzare opere faraoniche quanto inutili, e il mito della privatizzazione hanno aperto una ferita letale proprio nel tessuto sociale, affossando al contempo il sistema solidale pubblico.

I continui aumenti contenuti nelle bollette, il rincaro dei servizi e dei generi alimentari costringono le famiglie a confrontarsi quotidianamente con la stagnazione dei salari e degli stipendi. La busta paga non regge più i picchi inflazionistici, e i tagli continui alla Sanità ed ai servizi sociali completano la trasformazione dell’Italia in nazione pronta a sacrificare i suoi cittadini più fragili.

L’avvicinamento del modello italico a quello statunitense trova riscontri anche nell’abbandono della scuola pubblica a favore di quella privata: gran parte della classe dirigente nostrana ha completato il suo percorso di studio nei college privati su cui sventola la bandiera a stelle e strisce. Gli ospedali a conduzione regionale fanno continui passi indietro per lasciare spazio alle cliniche e ai centri diagnostici in mano a società commerciali.

Grazie alla sistematica demolizione dei diritti in capo ai lavoratori, compiuta sia dal Centrodestra che dal Centrosinistra, la parte contrattuale proveniente dall’esercito dei disoccupati (per parafrasare Marx) soccombe regolarmente nella trattativa con quella padronale, che mai come oggi ha il potere saldamente in mano. In questo modo vengono accettati lavori a 4 euro l’ora e incarichi professionali in cambio di 300 euro al mese. Dinanzi a queste cifre non stupisce il paradosso di alcuni neoassunti, i quali scelgono di licenziarsi dopo aver fatto un semplice calcolo matematico: le spese dovute al recarsi sul posto di lavoro, e quelle dovute allo svolgimento quotidiano delle proprie mansioni, si dimostrano superiori alle entrate.

Il governo in carica, sostenuto soprattutto dal ceto medio e medio basso, ha messo in testa alle proprie priorità la metodica distruzione di tutte le misure sociali varate dai due governi Conte. Il salario minimo non trova posto nell’agenda politica della premier Meloni, mentre il reddito di cittadinanza ha oramai vita brevissima. Non è andata meglio alle imprese, e soprattutto ai lavoratori del comparto edilizio, con lo stop alla cessione dei crediti (superbonus 110%) deciso nei giorni scorsi dall’esecutivo.

La distanza di buona parte della classe politica dalla realtà quotidiana, e al contempo la sua pericolosa vicinanza alle lobbies finanziarie, sembra creare una sorta di insensibilità istituzionale nei confronti della miseria. Le immagini girate a New York, se non ci sarà una presa di coscienza collettiva, presto potranno essere molto simili a quelle fissate da operatori in azione a Milano, Torino, Roma, Napoli e tante altre città della penisola.

Solo gli stolti cadono di continuo nello stesso errore, chi riflette invece soppesa gli sbagli dopo averli riconosciuti e vi pone rimedio: basta volerlo.

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