SANITÀ

Ospedali e case di comunità, "delle cattedrali nel deserto"

Le strutture del Pnrr rischiano di non avere il personale. In Piemonte i medici di famiglia erano 3.400 del 2006, oggi 2.700. Barillà (Smi): "Piano sociosanitario vecchio e scarsi investimenti nell'informatizzazione". L'appello dei camici bianchi al ministro

“Nel 2006 in Piemonte eravamo 3.410 medici di famiglia, oggi con un numero di abitanti sostanzialmente uguale ad allora, siamo 2700. Entro i prossimi cinque anni, probabilmente, scenderemo a 2.300. Come si farà a prestare i servizi negli ospedali e nelle case di comunità? Ecco perché le strutture previste dal Pnrr, rischiano concretamente di rimanere delle cattedrali nel deserto”. 

La metafora che Antonio Barillà, segretario regionale del sindacato Smi, torna a utilizzare è la stessa cui è ricorsa proprio ieri Pina Onotri, che della stessa sigla sindacale è la leader nazionale, rivolgendo un forte appello al titolare della Salute Orazio Schillaci. A paventare al ministro il rischio di trovarsi con delle scatole vuote era stato anche l’assessore piemontese alla Sanità Luigi Icardi, non più tardi del gennaio scorso quando in un incontro disse, papale papale, a Schillaci: “Le case di comunità rischiano di restare vuote, senza medici di base. O portiamo i professionisti in quelle strutture, oppure è inutile continuare realizzarle”. Tre mesi dopo l’allarme non è affatto cessato.  

Il caso del Piemonte può essere emblematico e non proprio rassicurante. Innanzitutto il piano sociosanitario regionale risale ormai a più di dieci anni fa e anziché predisporne uno nuovo, l’attuale così come la precedente amministrazione regionale è intervenuta con interventi più o meno mirati, senza produrre ex novo lo strumento principe della programmazione e organizzazione sanitaria. Ma non solo. “C’è la necessità, di fronte alla concreta prospettiva delle criticità che emergeranno sugli ospedali e le case di comunità, di fare una profonda riflessione – sostiene Barillà – su come riorganizzare l’attività assistenziale sul territorio che sia in rete con le strutture ospedaliere, con un utilizzo decisamente maggiore ed esteso dell’informatica”. Pare incredibile, ma come ricorda lo stesso sindacalista, “i medici di medicina generale non hanno accesso alla rete intranet della propria azienda sanitaria e questo vuol dire che non possiamo vedere gli esiti degli esami che prescriviamo ai nostri assistiti. Ma questo è solo uno dei tanti paradossi che complicano e rallentano la medicina territoriale. Ci sono servizi, come le cure palliative a domicilio per i pazienti oncologici che non sono in rete con i distretti, le cure a casa che non sono collegate all’ospedale e si potrebbe andare avanti ancora”. 

C’è, inoltre, un dato che mostra quanto la Regione guidata da Alberto Cirio ha delle precise responsabilità: “In Emilia-Romagna – ricorda il segretario dello Smi – sull’informatizzazione della sanità si investe quattordici volte di più del Piemonte. E noi qui non possiamo vedere sul portale dell’azienda sanitaria gli esami del sangue di un nostro paziente”. Anche il turnover è un capitolo negativo: “Ogni anno in Piemonte entrano in servizio circa 250 nuovi medici di famiglia, ma quelli che vanno in pensione sono circa il doppio. Ecco perché serve un piano sociosanitario con investimenti importanti e quando parlo di risorse economiche non mi riferisco ai nostri stipendi, ma per rafforzare e ridisegnare la medicina del territorio. Altrimenti – spiega Barillà – non si risolveranno neppure i problemi degli ospedali e, in particolare, la questione delle post-acuzie e delle dimissioni”.

E qui emerge un altro aspetto: “Molti anziani vengono dimessi e ospitati nelle Rsa, dove però la Regione non ha posto l’obbligo della presenza di un infermiere in orario notturno. Risultato: se l’anziano post-acuto, quindi ancora non guarito, ha un problema di notte viene portato in Pronto Soccorso e il cerchio torna a chiudersi senza risolvere il problema”. 

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