RIFORME

Autonomia in versione light. Lega sotto schiaffo di FdI

Il vessillo sbandierato dopo la vittoria in Piemonte s'affloscia. Lanzo rivede i piani al ribasso: "Porteremo una delega dallo Stato alla Regione entro fine legislatura". Le "manine" sul progetto Calderoli . Il meloniano Bongioanni: "Si andrà dopo le europee"

“Vedrete che, entro la fine della legislatura, una delega riusciremo a trasferirla dallo Stato alla Regione”. Com’è lontana, nelle parole che oggi il consigliere regionale leghista Riccardo Lanzo asperge di speranza, l’immagine dell’inizio della legislatura che s’approssima a concludersi, ben che vada, con poco più d’un pugno di mosche sulla torta afflosciata dell’autonomia.

Allora, era l’estate del 2018 e il centrodestra a trazione salviniana aveva da poco riconquistato il Piemonte al centrosinistra, il partito di Matteo Salvini non aveva esitato un istante a imprimere il marchio dell’autonomia regionale rafforzata quale core business del quinquennio che si stava aprendo e che poi sarà segnato e sconvolto dalla pandemia Covid. Più di due anni di emergenza hanno certamente frenato e accantonato il tema principe della politica leghista, ma anche quando la tempesta è passata altre nubi gravano sull’orizzonte di quella riforma un po’ figlia e un po’ nipote delle lontane secessioni e devolution di bossiana memoria. 

“Ci sono manine che i vogliono fermare, che si muovono contro il progetto di autonomia. Non sappiamo – diceva l’altro giorno il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo – se sono di centrosinistra o di centrodestra”. Mica differenza da poco. Poco prima, il pasticcio difficile da imputare solo a sbadataggine, dell’uscita del documento del Servizio Parlamentare di Bilancio critico sul testo del ministro Roberto Calderoli. Da lì il sospetto, non infondato, sulle manine. Se poi pure i vertici della comunicazione meloniana osservavano, con malcelato scarcasmo, che la diffusione del documento “non è stata propriamente casuale”, indicando un’accorta e perfida strategia patriottica, ecco che allora il guardare parecchio al ribasso come accade in Piemonte risulta una strada pressoché obbligata.

Lanzo, che oggi confida in quella delega prima del giro di boa del voto del prossimo anno, è un po’ l’emblema del sogno leghista che rischia di infrangersi sugli scoli fraterni, senza che s’intravveda una scialuppa con le insegne di Forza Italia, anch’essa assai tiepida su questo fronte. Il leghista novarese presiede la commissione speciale per la cui istituzione, quattro anni fa, si fecero fuoco e fiamme ingaggiando un braccio di ferro sulle peculiarità giuridiche dell’organismo al fine di evitare che a guidarlo fosse un esponente della minoranza. La maggiore autonomia su una serie di materie era un treno in corsa su cui era salito in fretta pure il Pd nell’ultimo scorcio della giunta di Sergio Chiamparino, forte di avere come apripista il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.

Un solco appena abbozzato, poi allargato il più possibile dal carroccio che, tuttavia, dovrà mordere il freno con i precedenti governi, “dove non c’era un ministro come Calderoli” rimarca Lanzo. Ma adesso c’è Giorgia Meloni, ci sono i suoi in numero decisamente maggiore ai leghisti in Parlamento e c’è quel presidenzialismo che si mangia, anche mediaticamente, il vessillo autonomista ormai sventolato solo più dai leghisti. “Non s’era mai visto un ministro che viene in commissione consigliare a spiegare il suo progetto”, confida Lanzo senza nascondere orgoglio. Ma orgoglio e pregiudizio è il titolo del film dove FdI incarna, pur senza ammetterlo, la seconda parte. Che la spinta autonomista non abbia mai entusiasmato il partito che nel suo dna e nei suoi avi ha il centralismo, non è un mistero. Con questo devono fare i conti i leghisti, sia pure “galvanizzati dalla visita del ministro”, per dirla ancora con Lanzo. 

La realtà che si prospetta è la notte rispetto al giorno della conquistata autonomia sognato dai salviniani. Lo stesso aut aut del governatore del Veneto Luca Zaia – “Se non passa l’autonomia, viene meno la maggooranza” – da via Bellerio in giù viene letta come una polpetta avvelenata per il segretario-ministro, sospettato di ammorbidire la linea e andare incontro alla premier disponendosi ad un annacquamento del testo Calderoli. Ancora una volta l’autonomismo duro e puro sta nello stendardo di San Marco, piuttosto che in improbabili cloni nel Nord Ovest. E l’ultimatum del Doge forse può essere l’unico appiglio per scongiurare uno scenario che si staglia con sempre più nettezza e vede la riforma slittare a dopo le europee, quindi dopo le regionali in Piemonte.

Quanto importi l’autonomia a Salvini rispetto al ruolo di ministro pronto ad appuntarsi la medaglia del ponte sullo Stretto è domanda con risposta scontata: il Capitano non farà mai un Papeete due. Primo perché non ha, come allora, la prospettiva (sia pure poi sfimata) di fare il premier, secondo perché gli piace fare il ministro, col ponte poi. Ma il mare c’è anche tra il dire della Lega e il fare dei Fratelli, con la spalla di Forza Italia. La bandiera dei maggiori poteri alla Regione, issata subito dopo la vittoria, in Piemonte ormai la reggono solo più i leghisti, peraltro facendo fatica a sventolarla come all’inizio. Prevedere un risultato al ribasso, come con realismo ma forse in un eccesso di ottimismo, fa il presidente della commissione Lanzo è indicativo della situazione attuale e non meno di quella futura. “Il tempo vola”, premette il capogruppo dei Fratelli a Palazzo Lascaris, Paolo Bongioanni. “In mezzo ci sarà una finanziaria, i temi dell’autonomia sono complessi e delicati, quindi credo che i tempi per una discussione avanzata sulla riforma matureranno nella seconda metà del prossimo anno”. Con buona pace di Lanzo e dei suo compagni di partito, ai quali non resta che ripiegare la bandiera per la prossima legislatura. O sperare in un miracolo di San Marco. 

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