Cultura di stato, propaganda a buon mercato

«Millemila soldiii...». A leggere certe analisi strampalate sul "moltiplicatore keynesiano della cultura", quantificato nientepopodimenoché in un ritorno di 21 euro di PIL per ogni euro investito in cultura dallo stato, non può che venire in mente il mitico ingegner Cane di Mai dire Gol: quello che faceva calcoli astrusi per il Ponte di Messina, il cui risultato dava sempre «milleee».

 

Nei giorni scorsi, si è discusso molto in Piemonte sulle modalità di finanziamento della cultura: la Lega vorrebbe infatti imporre che i contributi regionali per le attività culturali siano assegnati sempre tramite bandi pubblici, e non più a pioggia come in molti casi avviene oggi. Ribattono l'ex assessore Pdl Giampiero Leo (dal contributo notoriamente facile e democristianamente bipartisan), in accoppiata inedita con statalisti di vario colore come Gianna Pentenero, Eleonora Artesio e Davide Bono, e col Comitato Emergenza Cultura, che la Vera Kultura non è imbrigliabbbile dal freddo diritto amministrativo, e deve essere libera di sperimentare e innovare, senza sottostare alle dure regole di un bando pubblico (o quanto meno, precisa Leo, senza doverlo fare sempre).

 

Tanto per cambiare, a noi pare che entrambe le posizioni in campo abbiano torto, e che quella di buon senso sia l'unica a non essere rappresentata nel dibattito politico. La Lega e Cota hanno torto intanto perché, come sa chiunque abbia ne avuto esperienza, i bandi e concorsi pubblici non sono mai in generale quella garanzia di imparzialità che i loro sostenitori si illudano che siano; e poi perché effettivamente la cultura per definizione innova, sperimenta, crea. Beethoven ha forse composto la Nona Sinfonia o Michelangelo scolpito la Pietà rispondendo a un bando regionale per capolavori-che-diventino-classici-apprezzati-in-tutto-il-mondo?

 

Ma al contempo, ancor più torto hanno i lavoratori della cultura e i loro difensori politici, a chiedere che i contributi vengano dati sulla fiducia e senza neppure l'apparente garanzia di imparzialità del bando pubblico. Questo perché tutti abbiamo sotto gli occhi improbabili sagre della cicoria di montagna o festival di danze sino-tibetane con imperdibili artisti di strada malgasci, spacciati come altissima manifestazione culturale, ma in realtà baracconate pagate coi soldi del contribuente, magari due volte perché poi ci tocca pure rimborsare il politico che, dopo averla organizzata, ci si vuol recare a spese nostre per farsi bello.

 

Allora, checché ne dica il buon Matteo Renzi, secondo cui «il governo non deve spendere meno» in cultura (su questo, non siamo d'accordo col sindaco di Firenze), pensiamo invece che l'unica via per uscire dall'impasse sia proprio quella che i politici smettano di ficcare il naso nella cosiddetta cultura. E questo non solo perché il moltiplicatore keynesiano, qui come in qualunque altra occasione, è una burletta buona solo per chi non ha mai letto Il racconto della finestra rotta di Bastiat; ma anche per una ragione più sottile, ma molto più insidiosa: la cultura finanziata dalla politica ne sarà per definizione cortigiana e serva, e dunque fa molti più danni che altro.

 

Autori come Bastiat e come tanti altri che mettono in dubbio le teorie keynesiane e l'idea che gli investimenti pubblici in cultura siano una buona cosa, non ricevono guarda caso finanziamenti. Li ricevono invece quelli che scodinzolano davanti alla generosa mano della politica, oppure coloro che, pur in buona fede, ne avallano comunque le scelte e l'ideologia: destra e sinistra non c'entrano, come dimostra l'unione tra Pdl, sinistra estrema e Cinque Stelle, tutti d'accordo quando si tratta di spendere soldi altrui. Qui la distinzione è tra statalisti e anti-statalisti, e una cultura di stato è una cultura che perpetua lo statalismo, facendo un'enorme concorrenza sleale a chi la pensa diversamente.

 

"Ma in un Paese come l'Italia", si dirà, "come si fa a non investire sulla cultura?" E chi ha detto che non ci si deve investire? È chiaro che è un'enorme risorsa, che va sfruttata: semplicemente, non deve farlo lo stato, cioè la politica, cioè Fiorito. Dobbiamo toglierci dalla testa l'idea malsana per cui, se non è lo stato ad investire in un settore, non ci saranno investimenti in quel settore; e che senza intervento pubblico la cultura non può vivere: per accorgersene, basta leggere qualcosa di un autore che scrive tipicamente per pubblicazioni non-governative, come Filippo Cavazzoni.

 

Liberiamo risorse, riduciamo la tassazione e liberiamoci dei burosauri del ministero della cultura (su queste due cose concordiamo appieno con Renzi). E magari il profumo della libertà ci regalerà qualche altro capolavoro dell'umanità come all'epoca dei grandi mecenati: gli inni al potere costituito, dai film di Leni Riefenstahl alla Corazzata Potëmkin a La più bella del mondo, per quanto pregevoli dal punto di vista tecnico, non hanno mai dato un grosso contributo al progresso spirituale della società.

 

Cose inaudite.

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