SACRO & PROFANO

Da Torino a Novara e Ivrea,
piani boariniani in Piemonte

Dopo aver conquistato la diocesi del capoluogo, la consorteria di San Lorenzo punta a estendere l'egemonia su tutta la regione. Le prossime dimissioni di Brambilla e Cerrato spianeranno loro la strada. Il pluralismo (sbandierato) della Facoltà teologica

Il 2024 sarà l’anno delle dimissioni del vescovo di Novara, monsignor Franco Giulio Brambilla, e di quello di Ivrea, monsignor Edoardo Cerrato, e la cabina di regia del circolo “boariniano” dopo aver conquistato Torino si sta preparando ad espandere la propria egemonia su quelle plaghe del Piemonte ancora immuni dal suo verbo rigeneratore. In tal senso, le strategie vanno avviate in tempo, tessendo la tela con pazienza e lungimiranza, preparando il terreno con inviti, convegni, riunioni, segnali discreti inviati a S. Marta, dove infine si deciderà tutto. Per ora i boatos dicono che a Novara, sede prestigiosa e da sempre appannaggio di Milano, dovrebbe sbarcare il vescovo di Asti, il “protoboariniano” monsignor Marco Prastaro, stimato dal papa, dall’apparenza umile ma autoritario quanto basta e per il quale la peggior bestemmia è affermare che il sacerdote sia e si presenti come «alter Christus». Si tratterebbe però di vincere la resistenza dei milanesi che inviano a Novara eminenti personaggi del loro clero e della loro facoltà teologica. I tempi però sono cambiati. È noto come il papa sia ostile all’arcivescovo Mario Delpini che paga la sua indipendenza di giudizio negandogli la porpora. Per cui un torinese a Novara gli starebbe proprio bene.

Ad Ivrea l’obiettivo è quello di mandare il vicario episcopale monsignor Mauro Rivella, ma sembra che il suo tempo sia scaduto. Di fronte a questo disegno le obiezioni non mancano e la più consistente – ragionevole e di buon senso – è quella per cui il clero torinese occuperebbe tutte diocesi del Piemonte, quasi che fuori Torino quasi non esistano candidati degni dell’episcopato. Ragionevolezza e buon senso. Come la lettera inviata dal nunzio apostolico per l’inchiesta sulla nomina del nuovo arcivescovo di Torino dove si specificava che non si doveva indicare un prete del suo clero diocesano. O come la nomina del vescovo di Pinerolo di un apprezzato e colto esperto di ecumenismo che, già sulla scrivania del Santo Padre per la firma, fu all’ultimo cassata e spuntò il nome di Derio Olivero. Quando si dice il chiacchiericcio…

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Rimanendo a Novara, la benedizione delle nozze civili da parte dell’incauto o forse – più attendibilmente – ben consapevole parroco di Domodossola, don Vincenzo Barone, devono aver stretto in un dilemma Brambilla. Un tempo i vescovi agivano secondo coscienza, diritto e dottrina e uno come il parroco di Domodossola sarebbe stato sospeso a divinis per un congruo tempo. Adesso la domanda che si pongono è solo questa: come reagirà Santa Marta? E qui le cose si complicano. Alla fine, senza mai prendere posizione davanti ad un fatto che ha suscitato tanto clamore, si è appreso che don Vincenzo è stato sollevato dall’incarico di Vicario dell’Ossola. Nel più pure stile pretesco – o pilatesco – non vi è stato un comunicato ufficiale, ma la sua rimozione è stata fatta filtrare tra i confratelli in modo che si sapesse che il vescovo aveva provveduto.

Paura e amore del quieto vivere sono la cifra dei vescovi piemontesi, atteggiamento che però stupisce nella personalità volitiva del vescovo di Novara, noto per le sue passate esternazioni. Veramente passate perché monsignor Brambilla – lo dobbiamo ricordare agli immemori – è lo stesso che nel 1983 appose la sua firma al famoso manifesto dei 63 teologi italiani, che invocavano libertà di ricerca, con un attacco diretto a San Giovanni Paolo II al cardinale Joseph Ratzinger accusati, fra l’altro, di «un esercizio dell’autorità troppo centralizzato e poco rispettosa della vita concreta delle singole Chiese». Tutto questo però non impedì alla larghezza di cuore di Benedetto XVI dal nominare Brambilla vescovo di Novara. Con il peronista Jorge Bergoglio una cosa del genere è semplicemente inimmaginabile. Sì, perché non sono più i tempi di quella libertà che allora si invocava da Giovanni Paolo II, sapendo che non solo dopo l’espressione del proprio dissonante pensiero, non sarebbe successo nulla ma, al massimo, come nel caso di Brambilla, si sarebbe diventati pure vescovi. Oggi su chi osa fiatare fuori dal coro la vendetta scatta inesorabile e gli esempi si sprecano. Per quanto riguarda la centralizzazione, non è chi non veda come l’accentramento romano abbia raggiunto vette ineguagliabili. Nel prossimo articolo illustreremo la dinamica con la quale il papa della misericordia fa calare la scure sui vescovi che solo osano manifestare idee e sensibilità diverse dal mainstream generando quella paura che annichilisce ogni velleità di esprimere il proprio pensiero. Per avere un po' di parresia da monsignor Brambilla dovremo dunque aspettare il suo pensionamento.

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Chi invece non ha aspettato a parlare – perché lo faceva anche prima – è il vescovo da poco emerito di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi. Intervenendo ad un convegno egli ha posto le domande fondamentali, in particolare per quei cattolici che ancora vorrebbero impegnarsi in politica: «Se il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa da dire nella pubblica piazza di proprio e di unico, ne deriva che i cattolici non possono collaborare con tutti, perché non possono darsi indifferentemente per tutto. Scriveva Benedetto XVI che “Cristo accoglie tutti ma non accoglie tutto”. Nominalismo e agnosticismo oggi sono molto presenti tra i cattolici e gli uomini di Chiesa. L’“agnosticismo cattolico” è alla base dell’oblio dei “principi non negoziabili”, oblio che assolutizza la politica permettendole di fare tutto e, nello stesso tempo, la rende cieca. La politica può fare tutto, ma alla cieca. Il danno dell’oblio dei principi non negoziabili è rilevantissimo perché ad una politica così ridotta la dottrina sociale della Chiesa – intesa come annuncio di Cristo nelle realtà temporali e non come un semplice umanesimo vagamente solidarista e fraterno – non ha più nulla da dire di significativo per essa».

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Sull’ultimo numero del settimanale diocesano scendono in campo i pezzi da novanta della cupola “boariniana” con alcuni inequivocabili messaggi proprio mentre viene pubblicato il nuovo organigramma della Curia che ne certifica la completa egemonia. Il vicario episcopale per l’economia, monsignor Mauro Rivella, rivolge il suo annuale appello per l’otto per mille vantandone le conosciute benemerenze e all’obiezione che non mancano le polemiche risponde che se ne farà una ragione. Sul gettito però non fornisce nessun dato ma, soprattutto, non dice nulla sulla continua diminuzione delle sottoscrizioni dei fedeli e quali ne siano le ragioni. Oltre alla solita secolarizzazione – motivo che va sempre bene per giustificare tutto – si dice che abbiano inciso certamente gli scandali legati gli abusi del clero, ma anche il disorientamento dottrinale per cui non pochi di una Chiesa ridotta soltanto ad agenzia caritativa non sanno che farsene o comunque non basta. E allora, No dottrina no money.

Il liturgo e super rettore per la formazione, don Paolo Tomatis, prepara invece il terreno per l’inevitabile e drastica riduzione delle Messe, conseguente al prossimo accorpamento delle parrocchie, ammannendo una lezioncina sul vero significato dell’Eucaristia che è legata alla domenica, stigmatizzando «la progressiva moltiplicazione delle Messe nelle singole parrocchie e nelle chiese non parrocchiali» in cui si smarrirebbe il collegamento diretto tra Eucaristia e la comunità cristiana», arrivando a una «sistematica sconnessione con l’appartenenza ad una comunità concreta». Si potrebbe rispondere classicamente e cioè che la Messa è la perpetuazione del sacrificio di Cristo sui nostri altari. Allora sia che venga celebrata da un solo sacerdote oppure da molti, sia con nessun fedele oppure con la presenza di una moltitudine, ogni Messa offre a Dio un’adorazione, una lode e ringraziamento, una supplica di perdono e di richiesta di grazia che ha un valore infinito. San Tommaso è categorico su questo punto: tanto è l’effetto prodotto dalla Messa, quanto è l’effetto prodotto dal sacrificio di Cristo sulla croce. Sappiamo che molti preti ritengono ormai di non celebrare più la Messa quotidiana – da sempre raccomandata dalla Chiesa e dai papi – in quanto senza i fedeli non avrebbe valore e si dimentica che per il merito intrinseco ad ogni Messa, un sacerdote dà più alla Chiesa e al mondo intero con la celebrazione dell’Eucaristia che con molte opere.

Il clou viene però raggiunto dall’effervescenza gioiosa di don Ferruccio Ceragioli e dall’eminenza grigia di don Germano Galvagno che, con l’occasione di ricordare gli innegabili meriti del compianto monsignor Giuseppe Ghiberti, si profondono in una acritica esaltazione della facoltà teologica dove i due docenti hanno notevole peso. Si parte dal ritrarre un quadro completamente negativo e oscurantista dell’insegnamento teologico del passato per arrivare a sostenere l’insostenibile e cioè che oggi chi varca soglie di via XX settembre 83 «trova, a dispetto degli immancabili detrattori, una teologia equilibrata e plurale: non c’è un pensiero teologico unico ma un significativo spaccato della pluralità di voci presenti nella  riflessione teologica contemporanea e nel tentativo di tradurre il Vangelo di sempre nei linguaggi di oggi». Su questo presunto pluralismo ci sarebbe molto da dire. Lo faremo prossimamente, con dovizia di esempi.

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Faticando non poco, il vescovo di Mondovì, monsignor Egidio Miragoli, è riuscito finalmente a far accettare un incarico pastorale all’inclito don Duilio Albarello, astro teologico dell’Istituto di Fossano – un bell’esempio di ente del pensiero unico teologico dove se la cantano e se la suonano – nominandolo parroco delle parrocchie monregalesi di Sant’Anna e del Cuore Immacolato di Maria. In tal modo i poveri fedeli usciranno dalla minorità e verranno educati «all’adultità» della fede.

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Circola in rete un video in cui una intervistatrice pone delle domande preconfezionate al nuovo rettore del seminario, don Giorgio Garrone. Le risposte sono un’epitome dello stile e del pensiero “boariniano” e del loro progetto, perché è sul seminario e sull’incremento delle vocazioni che si giocherà – secondo le raccomandazioni a lui rivolte dal Santo Padre – l’episcopato dell’arcivescovo Roberto Repole. Si comprende così meglio l’operazione compiuta con la rimozione di don Luca Ramello che pure, a detta di tutti, nella pastorale giovanile aveva fatto bene, superando il vecchio schema degli adulti che parlano ai giovani. Per il nuovo corso la pastorale giovanile dovrà diventare l’anticamera di quel seminario che i “boariniani” hanno riconquistato e che li ha formati e che deve essere riempito. Attendiamo conferme con la nomina del vicerettore e del padre spirituale, salvo che per quest’ultimo delicato ufficio provveda, come ai bei tempi, direttamente il rettore.

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Devastationis Custodes

Mentre l’immagine in rete diventava virale, si diffondeva la voce che fosse un fotomontaggio. Invece era tutto vero. Il vescovo Nicola Girasoli, ex nunzio apostolico, ha celebrato la Messa a Ruvo di Puglia con una casula leopardata senza camice e mitra abbinata. I commenti più divertenti e spassosi hanno accompagnato la performance di Sua Eccellenza ma non c’è infine molto da ridere, perché questi sarebbero i vescovi in linea con il Motu Proprio di Francesco Traditionis Custodes. Verrebbe da dire… a posto siamo.

Si è diffuso un fotogramma in cui un ostensorio con le Sacre Specie vien fatto galleggiare su di una piscina con intorno i fedeli per l’adorazione. Aspettiamo ci dicano – lo speriamo vivamente – che si tratta di un fake. Nella liturgia ormai tutto è possibile, l’importante è che non si celebri la Messa di Don Bosco, di Padre Pio e di uno stuolo di santi e di anime grandi – vedi don Lorenzo Milani, Simone Weil, Dietrich Bonhoeffer etc. – che in quel rito si santificarono e da esso trassero alimento ed ispirazione.

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