L’influencer stagionale

L’inizio del nuovo anno porta generalmente con sé tanti buoni propositi, insieme a qualche riflessione. Si potrebbe definire la notte del 31 dicembre come un momento catartico, poiché festosa premessa di una nuova epoca, ma al contempo anche un’importante vetrina dei cambiamenti sociali in corso. 

Le celebrazioni in piazza del Capodanno 2024 hanno senza dubbio certificato l’importanza che l’immagine ha oramai ritagliato all’interno delle nostre comunità. Allo scoccare della mezzanotte, infatti, solamente una piccola parte delle persone radunatesi in piazza si è dedicata al tradizionale scambio di auguri, mentre la maggioranza ha preferito impugnare il proprio smartphone con lo scopo di girare video, o scattare selfie che ne immortalassero l’attimo (forse nella speranza diventasse magicamente eterno).   

La priorità, per i più, non è godersi appieno l’attimo festoso a cui partecipano, ma narrare ai follower lo spettacolo in cui sono immersi. Un racconto virtuale che impedisce a costoro di cogliere le emozioni create da quel momento unico, poiché trascorso riprendendo sé stessi in mezzo agli altri.

Jovanotti, nel 1990, cantava: “Ciao, mamma guarda come mi diverto”. Un testo che, evidentemente, anticipava l’epoca attuale, ossia i giorni in cui tutti avrebbero potuto diventare documentaristi della propria esistenza. Il mondo dei social ha amplificato tale fenomeno, sino a favorire la creazione di nuovi lavori basati sul consenso generato dalla propria immagine, sui “like”.

Il “fashion influencer”, è tra questi. L’influencer usa i profili social per mostrare ai contatti (definiti in questo caso impropriamente “amici”) i marchi, i prodotti, gli indumenti all’ultima moda, oppure i brand di tendenza di cui fa uso quotidiano, mettendo così a reddito il gran numero di follower virtuali. Egli, per l’appunto, influenza l’opinione pubblica, favorisce un atteggiamento emulativo da parte dei fan, e di conseguenza incrementa il fatturato delle aziende che lo sponsorizzano (e dalla quali arrivano i ricchi compensi).

Chiara Ferragni, tra le più note influencer del globo, da qualche settimana occupa le prime pagine dei nostri quotidiani. L’imprenditrice, a cui fanno riferimento molte società di commercializzazione, è inciampata su un pandoro prodotto con un marchio speciale, e tre volte più costoso del normale, per “annunciati” fini di beneficenza. Un piccolo scandalo l’ha travolta quando è stato scoperto che lei aveva fatto un buon incasso grazie al prodotto natalizio, mentre l’obolo promesso all’ospedale era pari a zero.

L’influencer, compagna del noto cantante/militante Fedez, ha chiesto pubblicamente scusa, ma si è esposta nel frattempo agli sfottò della presidente Meloni, la quale ha colto l’occasione per rispondere ad alcuni attacchi politici portati precedentemente dalla coppia contro la sua azione governativa. 

Facile replicare alla premier, poiché sarebbe sufficiente invitarla a guardare ai tanti scandali scoppiati all’interno della sua maggioranza e della sua compagine di governo (l’ultimo risale proprio al Capodanno con pistola fumante organizzato a Rosazza da alcuni suoi fedelissimi), anziché commentare i guai altrui; difficile invece comprendere quei giornalisti e opinionisti “progressisti” che si sono impegnati faticosamente nel tentativo di difendere la Ferragni, quasi a voler proteggere a tutti i costi un simbolo iconico della sinistra. Altrettanto inquietante osservare come la beneficenza commerciale stia lentamente sostituendo i programmi socio-assistenziali dello Stato (esattamente come accadeva due secoli fa).

In questa vicenda, forse, è possibile trovare la sintesi del disastro, culturale e politico, che la sinistra sta subendo negli ultimi anni. È possibile definirsi pubblicamente “compagni” pure quando si possiedono società commerciali che fatturano milioni di euro grazie al potere dell’immagine; oppure definirsi tali e vivere in attici lussuosissimi, sprecare il cibo per fare un video virale e, in altri casi invece, compromettendosi con la vendita e la produzione di armi. Alcuni siedono addirittura in parlamento tra i banchi del centrosinistra pur pagando i propri dipendenti con il minimo del minimo sindacale.

I militanti della cosiddetta “vecchia guardia”, ossia ex partigiani oppure persone che avevano vissuto la vivacità politica degli anni ’70, davano sovente dei buoni consigli alle giovani leve. Uno dei primi insegnamenti che impartivano riguardava l’importanza di non fornire all’avversario appigli utili alla propria causa e, quindi, la necessità di essere moralmente irreprensibili. Indirizzare un’accusa al “nemico”, infatti, scatena inevitabilmente una reazione, dalla quale si acquisisce autorevolezza e credibilità solo quando non si hanno scheletri nell’armadio.

La società dell’immagine è imprudente, superficiale, un pochetto narcisista e nasconde ossa in ogni antro: la coerenza, del resto, non è richiesta ai procacciatori di follower e, forse, neppure agli artisti.  

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