Mameli in autonomia "differenziata"

La settimana scorsa, la Rai ha mandato in onda una fiction dedicata alla vita di Mameli, combattente volontario tra le fila mazziniane e autore dell’inno italiano (musicato da Michele Novaro). È stata la penultima fiction in ordine di tempo, ma forse la prima di questo secolo imperniata sul tema risorgimentale.

La televisione pubblica sta investendo molte risorse sulla produzione di teleromanzi moderni, e attualmente sembra voglia prestare particolare attenzione alla storia del nostro Paese: narrazioni che purtroppo non si caratterizzano sempre per la fedeltà agli eventi storici che pretendono di voler rievocare. Nessuno, sino a qualche decennio fa, avrebbe espresso dubbi sulle ricerche bibliografiche, o d’archivio, compiute per scrivere il copione di uno “sceneggiato” Rai. Era infatti generalmente risaputo che lo scopo prioritario dell’emittente nazionale fosse quello di destinare al grande pubblico ricostruzioni televisive coerenti con la realtà dei fatti, non inquinate quindi da direttive politiche, poiché era implicita la funzione cultural/educativa delle medesime.

La fiction su Mameli tende invece a rendere banale un’intera fase storica. Guardando i due episodi, trasmessi in prima serata da Rai Uno, si inciampa nella visione di un’Italia unita messa insieme da un gruppetto di studenti (forniti di armi dagli stessi familiari) contrastati solo dalle pavide truppe sabaude, sempre pronte a fucilare i bravi patrioti. Truppe “piemontesi” i cui soldati sono riconoscibili, secondo l’opera televisiva, per lo sguardo truce, privo di umanità, scolpito sul volto.

Insomma, il teleromanzo dedicato alle gesta di Mameli riassume il fervore dei moti del 1848, e la prima guerra d’indipendenza, con la cronaca delle imprese di un gruppo di amici scanzonati che si uniscono a un Garibaldi dal marcato accento genovese, incontrato quasi per caso in un’osteria del capoluogo ligure, per andare in soccorso della Repubblica romana: eventi che seguono a una fallimentare spedizione a Milano, organizzata per affiancare gli insorti in città. Un insieme di ritratti televisivi che sono frutto di una liberissima, quanto superficiale, traduzione delle fonti archivistiche, e che scorda di proposito tanti momenti salienti della sua esistenza (tra cui la nomina di Mameli a capitano, per ordine di Garibaldi stesso). 

In Italia sembra oramai impossibile trattare con serenità la Storia unitaria risorgimentale. La Rai si è adattata al clima nostalgico che pervade il Paese, producendo uno sceneggiato che non turbi il sonno degli indipendentisti veneti, coloro che sventolano le bandiere con il Leone di San Marco, e tantomeno scalfisca i rimpianti monarchici dei gruppi neoborbonici: precauzioni utili a preservare il bacino di voti a disposizione di molti parlamentari. 

I produttori di “Mameli”, a quanto pare, non hanno voluto descrivere ai telespettatori lo slancio romantico e combattivo di coloro che, sostenuti da ideali egualitario-socialisti, si sono coraggiosamente schierati davanti alle baionette austriache, nel nome di un’Italia libera. La Rai, al contrario, ha preferito condurre maldestramente il pubblico nel fantasioso contesto storico in cui sarebbe stato scritto l’inno italiano. Gli stessi protagonisti della fiction sono stati immaginati come la riproduzione nel passato del modello di vita attuale dei giovani: con tanto di camerette e normali tensioni adolescenziali (intorno a Mameli mancavano solo i poster delle star musicali appesi sulle pareti della sua camera). 

L’epoca in cui si producevano film come “In nome del popolo sovrano” (Luigi Magni, 1990) pare lontanissima, non solo per gli anni trascorsi dall’uscita del lungometraggio nelle sale cinematografiche, ma per il crollo che nel frattempo la cultura ha subito nel nostro Paese. Demolizione affidata alle numerose operazioni di revisionismo storico, diffuse capillarmente tramite i social. Un progetto politico avviato con fredda determinazione verso la fine degli anni ’90, e ideato per redigere una sorta di “contro Storia” che, giorno dopo giorno, ha scalzato le vicende storiche del XIX secolo creando, al loro posto, una nuova “verità” (considerata addirittura degna di essere inserita nei testi scolastici).

Nella trappola revisionistica sono caduti in tanti, a prescindere da ideologie e credo politico. In tal modo è stato alimentato un pericoloso odio interregionale, principalmente a danno dei “piemontesi”, paragonati (in alcuni siti web) ai nazisti: percorso favorito da alcune “invenzioni” (o fake) create appositamente per essere gettate in pasto all’opinione pubblica. Tra queste spiccano l’insensata accusa di razzismo al criminologo Cesare Lombroso, descrivendolo in rete come una sorta di Goebbels ottocentesco, e l’infamante marchio di lager prehitleriano cucito ingiustamente sull’immensa fortezza di Fenestrelle. In realtà lo studioso, di fede ebraica e socialista, analizzò criminali di tutta Italia, inclusi moltissimi torinesi (mettendosi lui stesso in discussione); mentre la piazzaforte alpina fu un bagno penale e una prigione politica sino agli anni ’40 dell’Ottocento, per poi essere trasformata in una caserma (deposito militare): piccoli dettagli insignificanti per i seguaci delle tesi revisionistiche.

Il Risorgimento italiano, tra vittoriose battaglie e clamorosi errori, si è nutrito di passioni e ideali che hanno sconvolto l’esistenza di un’intera generazione di giovani rivoluzionari. I protagonisti di quei fatti furono, al Nord come al Sud d’Italia, intellettuali, studenti, ufficiali, soldati e popolani: cittadini spesso incarcerati, o peggio uccisi, per le idee che professavano. 

L’abbandono del generale borbonico Guglielmo Pepe da parte del suo Re durante la difesa di Venezia, assediata dagli austriaci, dimostra come fossero molti gli scenari possibili per giungere all’unità d’Italia, e diversi i sovrani in grado di armare un esercito capace di contrastare il dominio straniero: oggi non si può fare altro che prendere atto delle scelte compiute dai regni preunitari dell’epoca.

Ridurre, quindi, i moti ideali di quegli anni a una cospirazione attuata da pochi studenti sognatori, in lotta contro una strana setta internazionale (i cui adepti si riconoscono grazie a un anello che indossano) significa perdere un’occasione per fare un buon prodotto televisivo, e divulgare al contempo qualche dose di sana cultura. Mameli in versione “autonomia differenziata” è null’altro che lo specchio di una classe politica oramai incapace di guardare al di là del proprio naso.

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