Tv tra spot e lacrime

La seconda serata del Festival di Sanremo, il 7 febbraio, ha visto la presenza sul palco di John Travolta. L’ospite, attore versatile di fama mondiale, ha letteralmente distratto dal telecomando milioni di telespettatori, curiosi di assistere a quella che immaginavano essere una performance degna dell’artista. Attesa purtroppo tradita dagli eventi, poiché l’unica nota degna di rilievo della sua esibizione ha riguardato lo scandalo scoppiato immediatamente dopo i saluti finali. 

L’attore si è ritrovato al centro di una polemica mediatica sorta a causa delle scarpe che indossava sul palco del Festival, ma che non ha risparmiato neppure la sua esibizione di “danza” finale: il “Ballo del qua qua”, fatto insieme a Fiorello e alcuni ballerini travestiti da papere. I media hanno rimarcato, tutti all’unisono, l’irritazione dei vertici Rai dovuta alla presunta violazione delle clausole contrattuali pubblicitarie da parte della star americana.

L’apparizione di Travolta sul palco del Teatro Ariston ha avuto il sapore dell’occasione persa. Il dialogo tra Amadeus e l’attore è stato scarno, e una rilevante assenza di empatia verso il pubblico ha caratterizzato il tutto: l’intera intervista è ruotata intorno al ballo. Il conduttore, infatti, ha preso spunto da alcuni film cult interpretati da Travolta, come “La febbre del sabato” sera e “Grease”, per “improvvisare” alcuni passi di danza davanti alle telecamere. Non paghi, gli autori del Festival hanno pensato ad un epilogo da realizzarsi davanti all’Ariston, decidendo di terminare la kermesse tra le note del ballo cantato originariamente da Romina ed Albano.

A questo punto si potrebbe tranquillamente archiviare lo sketch del trio Amadeus-Fiorello-Travolta nel faldone del trash televisivo, ma ad un’analisi più attenta (a distanza di un mese dal Festival) la sensazione è quella che invece tutto abbia funzionato molto bene, raggiungendo con successo il reale obiettivo stabilito dagli autori del programma canoro. 

La tv è finzione, nulla di quel che appare sullo schermo è vero. Tutto viene studiato a tavolino, dai testi dei presentatori al loro posizionamento davanti alle telecamere: niente viene lasciato al caso nella “Società dello spettacolo”. Nella serata sanremese del 7 febbraio il pubblico non ha assistito all’involontaria presa in giro della star americana, a causa di maldestri autori, ma a un simulato mega spot pubblicitario.

John Travolta è entrato in scena vestito come nella pubblicità in cui presta il volto ad brand di scarpe (lanciata attualmente nei canali tv nazionali) e indossando, ben visibili, proprio le calzature sportive dello spot. I piccoli numeri di ballo avevano il fine di dimostrare la comodità delle scarpe stesse: talmente comode da costringere Amadeus a togliere le sue per stare al passo dell’artista di Hollywood. 

Finito il numero all’interno del Teatro Ariston, il conduttore ha nuovamente messo le sue calzature, di cui ha fatto a meno per una manciata di minuti (valeva davvero la pena rimanere in calzini per un lasso di tempo così breve), e ha accompagnato l’artista in strada dove lo aspettava un altro ballo, quello del “Qua qua”. Travolta, quindi, è stato un ospite esclusivamente “ballerino”: il tutto, probabilmente, per accontentare uno sponsor. 

A questo punto sorge spontanea una domanda, anzi due: chi ha pagato davvero la partecipazione di Travolta al Festival, la Rai o lo sponsor, e infine perché gridare subito allo scandalo citando contratti e postille. L’unica ipotesi immaginabile è quella di una televisione senza vergogna che però di tanto in tanto teme di essere svelata e, per evitare il suo totale smascheramento, distrae l’attenzione pubblica su temi creati ad hoc (un po' come si distraggono i gatti quando vogliono graffiare, inducendoli così a fare altro). 

La televisione oggi è più artefatta che mai, grazie al mondo dei reality che illude il pubblico di poter spiare le abitudini e le reazioni caratteriali di vere (ma anzitutto finte) star: le lacrime, di prassi, scendono sul volto dei protagonisti e al contempo irrorano anche le guance dei telespettatori. Coloro che guardano lo schermo non sempre realizzano che quanto vedono è pura finzione. Autori, sceneggiatori, insieme a tanti altri professionisti, inducono magistralmente i telespettatori a provare forti emozioni. Curano i dialoghi con lo scopo di creare un mix di sentiment viscerali, indirizzati allo scatenamento di morbose curiosità e, quindi, al vedere “come va a finire”.

Ovunque, si tratti di fiction che di competizioni o reality, è immancabile la confessione di un protagonista, il quale davanti alle telecamere narra, come fosse nel proprio salotto con amici intimi, le disgrazie di cui è stato vittima. Un copione che oltre a suscitare commozione tra i telespettatori, permette di innalzare magicamente lo share. 

Ai drammi personali si alternano le gare nelle cucine, dove imperterriti giudici umiliano letteralmente schiere di concorrenti, ricevendo in cambio da loro solamente un “grazie”, oppure un “me lo merito”. Il tutto tra telecamere che con enorme precisione sanno dove posizionarsi, grazie alla scaletta che anticipa le inquadrature d’effetto sui tanti volti disperati, sino alle lacrime. In questo modo passano modelli culturali, specialmente visioni politiche, con l’avvallo di una società improntata sul consumismo, sulla sottomissione e sulla superficialità. 

La televisione racconta favole, una realtà immaginaria data in pasto al proprio pubblico tramite protagonisti che incarnano la bellezza e la ricchezza, ma soprattutto capaci nel creare una sorta di immedesimazione in loro da parte dei telespettatori (come accadeva al tempo dei fotoromanzi): gli sponsor sono i primi a raccoglierne i buoni profitti. 

Negli anni ’50 la tv ha unito e fatto l’Italia, oggi l’ha distrutta a partire dai rapporti sociali e umani. 

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