Pentenero tra riforma e controriforma

La Damnatio memoriae è un’arma a doppio taglio, specialmente quando viene applicata al fine di restaurare un credo fondato sul valore della nostalgia. Le trame della storia, purtroppo o per fortuna, sono sempre più astute dell’astuzia dei condottieri e, spesso, presentano il conto. Nella storia degli anti imperi la Damnatio memoriae consisteva nella condanna alla cancellazione di qualsiasi traccia della memoria di una persona. Renzi, nel disegno magistrale del “nuovo” Pd-Pds, merita tale condanna. Ma quando si eccede, e in particolare quando l’unico fine diventa “restaurare” l’antico, accade che possa essere proprio la logica della damnatio a travolge i suoi protagonisti nel vortice in cui perdono anche se stessi.

Così, esagerando nella voglia di antico, la Ditta neocomunista, nelle vesti della retro illuminata segreteria romana del Pd, ha smarrito ogni traccia di ciò che era stato l’umiliante incontro tra il non-vincitore delle elezioni politiche di un decennio fa, e i protagonisti dell’arrembante Movimento. Il conto della damnatio è che si è smarrita quella via trasparente, espressa attraverso le primarie, e riformista, che avrebbe indicato a tutti con chiarezza dove il Pd pretendeva condurre la storia della sinistra sociale e politica, laica e cattolica, del nostro Paese e lo sviluppo dei territori per i quali si candida ad essere guida e governo.

Pur tuttavia, anche se nata in ambito di damanatio, la candidata assessora Gianna Pentenero a guida della coalizione per il governo della Regione si trova, come Alice, di fronte alla scelta tra quella nostalgia per la restaurazione degli antichi numi che la porterebbe, secondo i maestri romaneschi, dritta nella tana del bianconiglio grillino dove, pare, si realizzerebbe, in un “campo largo” senza limiti, quella conciliazione tra gli opposti, e si compirebbe quella storia che Carlo Marx prospettava nelle pagine dell’Ideologia Tedesca, la fine della storia del movimento operaio in un mondo in cui ognuno è se stesso in armonia con la società intera e con la natura.

Dal lato opposto si trova la possibilità di avviarsi finalmente verso la realtà (o del pragmatismo politico, per gli spiriti più elevati) che richiede di sciogliere le ambiguità e le contraddizioni che hanno caratterizzato spesso il centrosinistra anche in Piemonte, e attraversare quel deserto delle scelte che mai si sono volute fare e che avrebbero contribuito a portare il centrosinistra verso quel riformismo che nella storia ha provato a mettere insieme l’equità e la giustizia sociale con lo sviluppo e la libertà delle persone, nella società come nell’economia senza la pretesa della fine di ogni conflitto. Purtroppo, però, sono ormai decenni che si è scelta la comoda posizione dell’immobilità centrale tra i sì di chi propugna il cambiamento e l’adeguamento alle esigenze sempre più dinamiche di una società globalizzata e competitiva; e i no di chi continua propugnare le meraviglie di uno Stato distributore di benessere e di sviluppo con reddito garantito e scuole e sanità, a cui, nell’entusiasmo dell’abolizione della povertà, si è aggiunto il “cappotto” per i proprietari immobiliari (forse qualcuno, in questo caso ha preso per buona la leggenda di un popolo costituito per oltre l’80% di proprietari immobiliari) gentilmente concesso alle imprese da parte di uno Stato benefattore, con aggiunto un omaggio ulteriore del 10% sul prezzo del costo.

Bene, a nostro avviso, tutte le motivazioni che possano avere portato alla scelta dell’attuale candidata per l’area di centrosinistra (o sinistra e basta?) non spezzano i nodi gordiani su cui è naufragata, dopo la sua europeizzazione, quell’esperienza che dall’Ulivo prodiano e veltroniano che ha portato fino alla costituzione del Partito Democratico. Le contraddizioni e le incoerenze sono tutte là, presenti e ingombranti più che mai e che, tanto più oggi, che rischiano di trascinare a fondo quell’esperienza nell’involuzione antimoderna e antioccidentale del cosiddetto Movimento.

Quindi, dicevamo, la candidata a presidente, vista la défaillance del Movimento, potrebbe optare per la soluzione di restaurazione minimale, o “del far rimanere tutto come prima”, e proseguire quella “migliore” tradizione della sinistra del vivere con le incoerenze dando spazio ma, forse, o almeno, anche argine, alla sinistra interna come fece Chiamparino, ma come non riuscì a Fassino abbandonato da quella parte della sinistra-sinistra che scelse il Movimento. E forse qualcosa ci dice che la speranza dei maestri romani era che proprio per l’origine politica della candidata in questa occasione si sarebbe riusciti a realizzare ciò che non fu possibile al povero Fassino. Oppure potrebbe dimostrare il coraggio di saper guardare in faccia i problemi del Piemonte e parlare a tutta quella tradizione del liberalismo sociale che esprime in modo forte in senso politico l’esigenza, per la regione, di uscire dall’isolamento che da decenni attanaglia il mondo produttivo e la società.

Un bivio poiché la via del riformismo è stata scartata “a prescindere” per restaurare evitando ciò che in ogni caso si presentava come qualcosa di nuovo, in due volti giovani della politica piemontese, col pretesto di evitare la conta tra schieramenti. Ma la restaurazione è proprio ciò di cui il Piemonte non ha bisogno, nella società, nell’economia, nella cultura né tanto meno nella politica. Questo non sembra comprensibile tra le sfere del neotomismo della sinistra pidiessina. Una sinistra che teorizza ancora il “blocco sociale”, la classe, come popolo variegato che va dai giovani, ai pensionati fino a tutti i delusi della globalizzazione. Quella classe-popolo, un fronte della nostalgia che dovrebbe contrapporsi ad un candidato del centrodestra che proviene e incarna il territorio più dinamico del Piemonte degli ultimi 20 anni, quel territorio che produce ormai circa la metà del Pil piemontese e che, dall’alluvione del ’94, si è risollevato sposando modernità e tradizione in un dinamismo invidiato dalle migliori realtà nord ed extra europee. Ma, per citare ancora Totò, “ma come si fa?”.

Questo che è quello che Elly Schlein, proveniente dalle terre dei riformisti Calvino e Swingli, non può cogliere nel paese di Machiavelli, dove la politica è considerata il giusto mezzo tra l’arte della dissimulazione e la necessità di simulare qualcosa di nuovo per poter rimanere sempre come prima. Ed è così che dietro l’armocromia della prima donna assurta alla segreteria grazie alla spinta di una corrente nettamente neo-comunista (e, nella speranza che così non si dimostri la candidata donna a presidente della Regione Piemonte) si nascondono i più accesi sostenitori di quella controriforma nella sinistra cui la storia recente ha condannato il nostro Paese. Un Paese irriformabile non più, come diceva Gobetti, per la mancanza di una borghesia liberale (detto per inciso Cirio è figlio diretto e legittimo di questa borghesia liberale che la sinistra, come ormai accade di recente, per decenni “non ha visto arrivare”), ma per le insufficienze di una sinistra radicale che non riesce ad imboccare la strada definitiva del riformismo e sfidare la storia sulla via del progresso e delle conquiste sociali e civili.

print_icon