I lati oscuri del caso Toti

Il 7 maggio 2024, ad un mese dalle elezioni europee, un terremoto giudiziario ha sconvolto Genova e la Liguria. Il gip di Genova, accogliendo le tesi della procura, ha disposto gli arresti domiciliari per il presidente della regione Liguria Giovanni Toti. Il gip, nell’ordinanza, giustifica le esigenze cautelari con «il pericolo attuale e concreto che l’indagato commetta altri gravi reati della stessa specie di quelli per cui si procede e, in particolare, che possa reiterare, in occasione delle prossime elezioni, analoghe condotte corruttive, mettendo la propria funzione al servizio di interessi privati in cambio di utilità per sé o per altri. Tali esigenze cautelari sono desumibili, essenzialmente, dalle modalità stesse della condotta dalle quali traspare una evidente sistematicità del meccanismo corruttivo». Il Procuratore della Repubblica di Genova, dottor Nicola Piacente, in seguito all’indagine preliminare, ha disposto un corposo fascicolo accusatorio.

In procura, intanto, come al tempo di Tangentopoli, stanno accumulandosi decine di segnalazioni, molte anonime e altre che si rifanno a casi di corruzione di 20 anni fa. Toti, però, non si sa quando, e se verrà sentito dal pm. A tal proposito il dottor Piacente ha dichiarato che, davanti al pubblico ministero «non è un interrogatorio di garanzia» e quindi «non è obbligato a farlo» e aggiunge: «l’indagato che decide di avvalersi della facoltà di non rispondere davanti al gip, può fare dichiarazioni spontanee. Anche al Riesame e se c’è urgenza può presentare memorie». Infatti, l’avvocato del presidente della Liguria, non avendo terminato di leggere tutte le carte, ha suggerito a Toti di non fare dichiarazioni durante l’interrogatorio del gip per poterne chiedere il rinvio. Inoltre, precisa il procuratore, «l’unico momento in cui la procura è obbligata a interrogare l'indagato è nella fase della chiusura delle indagini». Ma se è stato prodotto il fascicolo accusatorio, non sono già terminate le indagini preliminari?

Il ministro della difesa Guido Crosetto, dopo aver letto le “carte”, in un lungo post su X (ex Twitter) ha affermato: «Con la logica usata per Toti (a cui non viene contestato alcun vantaggio personale e privato) possono arrestare la quasi totalità dei sindaci, dei presidenti di Regione, dei dirigenti pubblici. Suppongo potrebbero arrestare anche la maggior parte dei magistrati». L’arresto costringe il presidente della Regione a non prendere parte ai suoi doveri di ruolo e, quindi, presto sarà indotto, con ogni probabilità, a rassegnare le dimissioni. Questa condotta, però, porta a pensare che il potere giudiziario italiano possa cambiare gli assetti politici democraticamente eletti dal popolo.

Sui giornali e nei talk show le opposte “fazioni” si confrontano, o meglio si scontrano: c’è chi condanna e c’è chi assolve. La questione non è essere garantisti o giustizialisti ma essere rispettosi della legge: la legge italiana stabilisce che essere indagato non significa essere imputato, ed essere imputato non significa essere colpevole. È giusto e doveroso che la procura svolga indagini su sospette violazioni di legge (in Italia, a differenza della maggior parte degli altri paesi, esiste il principio “dell’obbligatorietà dell’azione penale” sancito dall’art. 112 della Costituzione). Ma in uno Stato, che si dice di diritto, dovrebbe essere rispettata la norma di presunzione d’innocenza sino a quando un giudice emetta sentenza contraria. In Italia abbiamo tre gradi di giudizio per esprimere una sentenza definitiva cioè una sentenza che, se non la verità assoluta, umanamente impossibile, sancisca la verità processuale. L’ordinanza cautelare deve essere un caso eccezionale. Esso è un provvedimento basato su elementi raccolti dalla “pubblica accusa” e portati all’attenzione del giudice che decide sulla libertà personale del cittadino. Come dimenticare che, dal caso di Enzo Tortora sino ad oggi, una grande moltitudine di cittadini è stata indagata, accusata e, a volte, condannata per poi, dopo anni di “gogna mediatica” e spesso di carcerazione preventiva, da non colpevoli (senza condanna emessa in seguito ad un processo, si è innocenti!), uscire dai tribunali con le formule “per non aver commesso il fatto” oppure “perché il fatto non costituisce reato”? Oggi colui che subisce un’ingiustizia da parte dello Stato è l’unico che paga, e pagherà per tutta la vita, il salatissimo scotto! Cicerone, nel “De Oratore”, scriveva: “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis (la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità)”.

Ho la sensazione che oggi vada più di moda il proverbio “acqua passata non macina più”: dimentichiamo gli errori fatti!… ma, purtroppo, in un eterno ritorno dell’uguale, li ripetiamo. Basta ricordare il 4 febbraio 2008 quando Giovanni Novi, presidente dell’autorità portuale di Genova, venne posto agli arresti domiciliari su mandato della Procura di Genova: tutto avvenne davanti a giornalisti e fotografi perché «I pm volevano che ci fossero i fotografi», come riportò lo stesso Novi. “Cui prodest” l’inutile teatralità mediatica? La Procura di Genova avanzò contro Giovanni Novi, e altri personaggi di spicco, una serie infinita di accuse per presunte irregolarità nella concessione dei moli del porto ai terminalisti. Nel luglio 2008, a fine indagine preliminare, fu chiesto il loro rinvio a giudizio con accuse di turbativa d’asta, truffa e concussione. Due anni dopo, in appello, il reato finì in prescrizione, ma gli imputati fecero ricorso in Cassazione e il 13 marzo 2014 la Suprema Corte confermò la loro assoluzione perché “il fatto non sussiste”, sottolineando, nella sentenza, che Novi non solo non commise alcun reato ma agì per il bene del porto. Intanto le accuse avevano macchiato per anni la sua figura e dopo l’assoluzione definitiva l’ex presidente del Porto ha dichiarato: «Mi hanno riempito di fango. Non mi sono mai arreso, ho rifiutato la prescrizione, ci sono voluti sei anni ma ora sono tornato ad essere un galantuomo, anche per la legge (…). Mia moglie era malata ma era ancora in piedi (…) Sotto casa sono arrivate quattro auto della Guardia di Finanza. I militari hanno suonato dicendo che dovevano notificarmi un provvedimento. (…) Per due volte li ho invitati a salire per dirmi di che cosa si trattava. Mi hanno risposto che dovevano aspettare una persona. Infine, a questo punto presenti i fotografi e gli operatori, sono entrati in casa con l’ordinanza del giudice. Mia moglie è crollata (…). Era il 14 febbraio, ho raggiunto mia moglie in clinica, è morta il giorno successivo (…). Non sono povero, è vero, però ho dovuto vendere un appartamento e un bel po’ di azioni per pagare le spese legali. E ci sono state anche altre conseguenze: quando ho rimesso piede nel mio ufficio, che avevo lasciato per l’Autorità Portuale, amici e conoscenti mi hanno fatto sapere, tramite i miei figli, che temevano di essere intercettati, parlando con me (…). Sono forte e non sono crollato, né fisicamente né psicologicamente, ma tra gli altri 8 imputati che come me hanno affrontato i tre gradi di giudizio c’è chi non si è ancora ripreso, dopo depressione e stati ansiosi». Chi, in nome e per conto dello Stato italiano, condusse le indagini e sostenne in tribunale le pesantissime accuse, rivelatesi processualmente “non vere”, furono tre magistrati di cui oggi uno in pensione e due con alte cariche presso la Procura e la Corte d’Appello di Genova.

Dunque, in uno dei più eclatanti casi di “malagiustizia”, chi ha “pagato” per aver causato gravissimi danni fisici e morali a cittadini onesti? Forse nel “Bel Paese” vale quanto recita il testo di una bella canzone napoletana a ritmo di tarantella: «...Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce 'o ppassato …».

Statisticamente in Italia oltre il 40% dei processi di primo grado si conclude con l’assoluzione e oltre il 50percento delle sentenze di condanna vengono riformate in appello. Come non prendere atto che si rende necessaria una strutturale riforma dell’amministrazione della giustizia a cominciare dalla separazione delle carriere dei magistrati? Svolgere indagini su un cittadino o giudicarne il suo operato presuppongono atteggiamenti mentali diversi ed entrambe devono essere liberi da costrizioni “corporative”. I magistrati requirenti, ovvero i pubblici ministeri che conducono le indagini, e i magistrati giudicanti, ossia i giudici dei tribunali e delle corti, oggi hanno lo stesso percorso di carriera: laurea in giurisprudenza, concorso, 18 mesi di tirocinio come uditore giudiziario e, solo in base alla funzione che svolgeranno, procuratori o giudici, con possibilità di passare da una funzione all’altra almeno due volte durante il loro percorso di carriera. La separazione delle carriere, con due ordini giudiziari distinti, costringerebbe i “candidati” a decidere subito dopo la laurea quale mestiere perseguire tra giudice e pubblico ministero.

Il ministro Nordio (ex magistrato), durante il 36esimo Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, a Palermo, ha precisato: «(…) è la stessa dichiarazione di Bordeaux che prevede una netta distinzione tra pubblico ministero e giudice. Ma essa stessa prevede, e per me è un principio non negoziabile, che vi sia una assoluta indipendenza del pubblico ministero nei confronti di qualsiasi autorità, a cominciare dal potere esecutivo». Giovanni Falcone, icona di tutto l’arco parlamentare, sul tema della separazione delle carriere tra magistrato requirente e magistrato giudicante, diceva: «Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l'obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell'azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte».

Se poi, come avviene in tutte le professioni, anche i pubblici ministeri rispondessero dei danni causati ai cittadini che a sentenza definitiva risultano innocenti, penso che ci sarebbe più attenzione nel definire gli indizi “gravi, precisi e concordanti” affinché abbiano sia un’altissima possibilità di “reggere” a processo sia un’attendibilità nel richiedere una misura preventiva. Come ha dimostrato il caso Novi, e tanti altri prima e dopo il suo, le carcerazioni preventive e le misure cautelari devono essere utilizzate eccezionalmente, con grande attenzione, avendo contezza che si sta togliendo la libertà a cittadini giuridicamente innocenti! Per quanto riguarda il presidente Giovanni Toti, e gli altri coimputati, ritengo sia d’obbligo sospendere qualunque asserzione di innocenza o colpevolezza aspettando, come ci insegna la nostra Carta, l’esito dei processi sino a sentenza definitiva.

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