Un tizzone fumante

Un tizzone carbonizzato: un pezzo di legno dai contorni irregolari e annerito, collocato in una palla trasparente di vetro che simuli l’effetto neve. Ideare un nuovo souvenir di Torino, che rappresenti anche la regione di cui la metropoli è capoluogo, non può prescindere dall’elemento “Fuoco”: elemento sintesi della “cura” che le Istituzioni democratiche dedicano, costantemente, ai beni architettonici e al patrimonio boschivo montano.

L’incendio che ha colpito a inizio settimana il tetto della Cavallerizza, edificio parte del complesso Reale torinese e patrimonio dell’Umanità, è l’ultimo di una lunga serie. L’elenco dei beni culturali deturpati dalle fiamme è impressionante.

Nel 1984 un crollo catastrofico investì il seicentesco Palazzo degli Stemmi di via Po, interessato da un cantiere di ristrutturazione (la stessa sorte pare abbia sfiorato in quell’epoca anche Palazzo Madama) mentre la prima combustione “moderna” risale all’anno 1997 e purtroppo interessò addirittura il Duomo: evento drammatico in cui venne distrutta la bellissima cupola in marmo del Guarini (riaperta recentemente al pubblico).

Il Castello di Moncalieri prese fuoco nel 2008, e cinque anni dopo (nel 2013) il forte di Fenestrelle cadde vittima di un incendio doloso che devastò interamente un edificio del San Carlo, intaccando al contempo la chiesa della piazza d’Armi (i presunti colpevoli sono in attesa della sentenza definitiva in Corte d’Appello). Un cantiere invece fu la causa dello sprigionarsi del fuoco nel sottotetto ligneo della Sacra di San Michele (gennaio 2018).

L’antica Cavallerizza è particolarmente sfortunata poiché i Vigili del Fuoco dovettero già intervenire tempo addietro (2014) per fermare le fiamme divampate improvvisamente in un magazzino collocato all’ultimo piano, che si scoprì in seguito essere stato distrutto dolosamente tramite l’innesco di tre bottiglie incendiarie.

Il cupo inventario è parziale. Alla devastazione degli edifici storici occorre aggiungere la disintegrazione di ettari di bosco per mano di piromani nel 2018 in Vallesusa, nonché i micropali che sfondarono la volta delle gallerie di Pietro Micca durante i lavori che in quel periodo interessavano il cantiere della riprogettata Porta Susa. Un bilancio a dir poco raccapricciante, seppur efficace nell’evidenziare la scarsissima attenzione che territorio e Istituzioni rivolgono alla tutela e conservazione del patrimonio culturale e architettonico regionale.

A quanto pare il fuoco risolve oramai ogni cosa, sia quando scoppia a causa di cantieri male organizzati, seppur impegnati in delicate opere di restauro, sia quando viene appiccato volontariamente per puro divertimento o per favorire importanti speculazioni edilizie.

Un tizzone di legno fumante è quindi la sintesi perfetta dello stato dell’arte in cui giacciono (piuttosto malconci) monumenti, palazzi storici, fortezze e abbazie.

In particolare, la zona di Torino compresa tra via Verdi e corso San Maurizio scatena attacchi di panico a chiunque passeggi per la città amandone la Storia. L’antica zecca del Regno di Sardegna (innanzi alla sede Rai) è rimasta impacchettata per lungo tempo con gigantografie installate per camuffarne il degrado (i cui temi erano stati originariamente ispirati dal vicino Museo del Cinema), sparite le quali è riaffiorato il simulacro di un cantiere immaginario: enormi impalcature a fronte di nessun operaio al lavoro.

In sostanza pare non esista un piano di recupero strutturale, e funzionale, del sito. La stessa situazione ha caratterizzato per decenni l’abbandono patito dalla Cavallerizza. Solitudine spezzata dall’arrivo di un collettivo d’artisti che ha occupato l’edificio sottraendolo così alla fame senza limiti del mercato immobiliare di lusso. Purtroppo al momento dell’occupazione i danni si erano già verificati: il commercio illegale si era infatti già accanito sulle antiche porte settecentesche, estirpate dagli infissi e vendute al miglior offerente.

La facciata del complesso sabaudo posizionato su via Verdi si è comunque avviata verso uno stato di incertezza strutturale, unendosi idealmente al palazzo a rischio di cedimento posto all’angolo di via Giulia di Barolo. L’antica via cittadina offre quindi un triste panorama fatto di reti (che avvolgono ponteggi posti intorno ad edifici instabili) alternate a nuovissime palazzine postmoderne messe a fianco del mostruoso Palazzo Nuovo.

Investire in cultura significa creare posti di lavoro, valorizzare il territorio e sposare la memoria storica di un luogo con il futuro stesso dell’intera comunità.

Il tizzone annerito pone tutti noi innanzi a un vero e proprio ultimatum: salvaguardare i beni comuni oppure cedere dinanzi ai vandali e agli speculatori; scegliere tra un res publica votata all’autodistruzione e il riscatto delle collettività tramite le bellezze lasciate in eredità dal passato.

Alla politica la scelta… 

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