POLITICA & SANITA'

"Quella notte bloccai il taglio di 2 miliardi alla sanità"

In questi giorni drammatici, il governo Monti finisce sul banco degli imputati. L'ex ministro Balduzzi respinge le accuse e rivela: "Minacciai le dimissioni e alla fine la riduzione fu solo di 600 milioni". Un sistema di eccellenza che va però rivisto

Ci fu un giorno, anzi una notte, otto anni fa in cui la sanità italiana rischiò di essere messa in ginocchio. Non da un virus, ma da un taglio che il ministero dell’Economia aveva proposto al Governo presieduto da Mario Monti. Due miliardi di euro che, dopo una lunga discussione, nel corso della quale prevalse il punto di vista dell’allora ministro della Salute Renato Balduzzi, si ridussero a 600 milioni.

Quale sarebbe la situazione negli ospedali, oggi già allo stremo per l’emergenza, se quella notte del 2012 la sforbiciata fosse stata di due miliardi trasformandosi in una scure mortale sul sistema sanitario? Se nessuno avrebbe potuto prevedere lo scenario attuale con strutture al collasso, affannosa ricerca di personale, cliniche trasformate in covid hospital, allestimento di ospedali da campo, riesce addirittura impossibile immaginare quale sistema sanitario sarebbe stato chiamato a fronteggiare qualche cosa che va oltre l’eccezionale, dopo una mazzata come quella evitata allora.

Professor Balduzzi, partiamo da quella notte. Un momento difficile, drammatico per il sistema sanitario.
“Ricordo benissimo alcuni momenti difficili di quel periodo, con un Paese ancora in grande sofferenza e nel quale  alla Sanità si chiedeva uno sforzo di riduzione della spesa e di contrazione delle risorse che io giudicavo eccessivo”.

Poi si arrivò a quella richiesta di tagliare due miliardi.
“Adesso che sono passati molti anni posso anche dire qualcosa di più. In quell’anno e mezzo mi capitò soltanto una volta di dire, con garbo ma con fermezza, ai colleghi di governo: se andiamo avanti su questa strada che il ministero dell’economia propone, io non sono in grado di mantenere la responsabilità politica del governo di questo settore. In quella notte molto difficile si chiedeva alla Sanità una contrazione di risorse di due miliardi”.

Lei si oppose. Che cosa la sosteneva nel tenere quella posizione?
“Conoscevo i numeri. Con quelli rappresentai ai colleghi di governo che quello che veniva chiesto non era assolutamente compatibile con il mantenimento dei livelli essenziali della sanità del nostro Paese. Tra l’altro avevamo appena approvato la riforma del settembre 2012 che non a caso era intitolata Disposizioni per promuovere lo sviluppo del Paese attraverso un più elevato livello di tutela della salute. Come si sarebbe potuto conciliare questo con una riduzione della spesa di due miliardi? Devo dire che quella notte si evitò il peggio. Ebbi l’appoggio del presidente Monti e, alla fine, la condivisione unanime di tutto il governo. Attenzione, non sto dicendo che ci furono più risorse per la sanità, in quei momenti non era proprio possibile e il ministero dell’economia aveva un compito non facile. Dovetti lasciare sul campo 600 milioni. Ma non due miliardi. Sapevo che, lavorando bene sulle regole che avevamo da poco approvato, avremmo potuto reggere quella decurtazione. Due miliardi sarebbero stati davvero dei tagli, inaccettabili”.

Eppure da più parti viene addebitato al Governo di cui ha fatto parte e al suo ministero l’aver fatto tagli alla Sanità, che ora si trova nella situazione che tutti conoscono.
“La verità storica è un’altra. Se si accetta di ragionare in sanità di tagli, si sceglie una strada sbagliata che non porta da nessuna parte. Quando ero ministro ripetevo sempre che i tagli in sanità li fa il chirurgo. Chi ha la responsabilità di governo in sanità non deve tagliare alcunché, salvo che tagliare significhi eliminare inefficienze e sprechi all’interno di una riqualificazione e riorganizzazione dei servizi. Posso dire di non avere proposto mai nessun taglio. Saremo forse un po’ troppo orgogliosi, ma siamo convinti di aver dato un contributo importante per salvare il sistema Paese, compreso il Servizio sanitario nazionale. In quell’anno definimmo anche gli standard ospedalieri che non significa tagliare, ma distribuire i servizi laddove questi devono esserci e superare duplicazioni poco efficienti quando non pericolose, e comunque fatte non nell’interesse dei cittadini. Sono consapevole che un lavoro del genere può aver creato incomprensioni. In alcune parti del Piemonte una cattiva informazione indusse molte persone a credere che le si portasse via l’ospedale. Non si è portato via niente a nessuno, almeno dove le Regioni, le aziende e le autonomie locali hanno operato bene, collocando i servizi dove era necessario. Quando mi chiedevano di chiudere tutti gli ospedali sotto gli ottanta posti letto, rispondevo: chi l’ha detto? Dipende dal territorio, dalla situazione dei collegamenti, da molti fattori”.

Un’altra polemica riguarda il ruolo dei privati nella sanità. C’è chi, oggi, invoca solo il servizio pubblico e accusa di aver allargato troppo verso chi in questo settore fra impresa. Un approccio ideologico?
“Sono stato accusato di una eccessiva predilezione per la sanità pubblica. Ne vado fiero. La sanità pubblica è quella capace di inserire e integrare al proprio interno il privato migliore, quello che sa stare alle regole, non il privato opportunista. Per fortuna un tale privato esiste e in questo momento vediamo le energie pubbliche e le migliori energie private lavorare insieme. L’approccio ideologico è di due tipi. Da una parte ci sono nostalgie panpubblicistiche, ma sono tutto sommato contenute. Abbiamo invece dovuto e dobbiamo combattere contro un approccio ideologico di altro segno e altra forza, quello che ha sempre cercato di attaccare l’universalismo del sistema e il finanziamento attraverso la fiscalità generale”.

Come sta rispondendo, a suo avviso, il sistema sanitario a questa prova senza precedenti?
“In maniera complessivamente all’altezza della sua fama. Il nostro è un sistema sanitario che è disegnato molto bene. Quando parliamo di universalismo, accessibilità, globalità diciamo parole concrete rispetto alla nostra sanità, elementi di strutture di quello che davvero è uno dei gioielli della nostra organizzazione pubblica.Certo, siamo consapevoli che l’Italia è molto variegata e questa eccellenza sanitaria non è omogenea sul territorio, ma questo perché il territorio non è omogeneo. Dico sempre che il ragionamento da fare non è quello di confrontare i livelli dell’assistenza sanitaria tra territori molto disomogenei, ma di confrontare la sanità, territorio per territorio, con gli altri servizi pubblici. In questo modo anche nelle aree più difficili rispetto ad altri settori, dai trasporti alla giustizia, si scopre che la sanità comparativamente ha un assetto migliore.E, soprattutto, noi abbiamo operatori, medici, infermieri e tecnici meravigliosi, e anche un grande volontariato. Nell’ordinario e anche nello straordinario, ma adesso siamo oltre lo straordinario”.

Mancano posti letto e addirittura sistemi di protezione, le mascherine, servono più medici. Questo non è anche risultato di una programmazione che andava fatta meglio?
“È chiaro che c’è una sofferenza acuta del nostro sistema. I ragionamenti sulla carenza di posti letto di terapia intensiva, di dispositivi di protezione, sono gli stessi che si stanno facendo in tutta Europa e parliamo di Paesi in cui l’esplosione del virus è molto in ritardo rispetto all’Italia. Eppure hanno i nostri stessi problemi. C’è evidentemente un problema complessivo dei sistemi sanitari nel far fronte a un’emergenza non prevista in questi termini e per un virus di cui si conosce molto poco”.

Ci sono state frizioni tra alcuni presidenti di Regione e il Governo. Lei, da costituzionalista, come vede questo rapporto. Ci sono dei rischi?
“Il nostro regionalismo rispettoso delle autonomie dà al centro i poteri necessari e debbo dire che il centro li sta esercitando in modo equilibrato. Certo che le decisioni devono essere omogenee, ma senza passare sopra ai livelli territoriali, senza mortificarli e demotivarli. Il regionalismo in sanità non nasce nel 2001 ma nel 1947-1948, quando i costituenti compresero che ci sono servizi che per poter essere efficienti devono combinare l’aspetto nazionale con quello territoriale e diedero alle Regioni la competenza concorrente in sanità”.

In Piemonte i casi di coronavirus stanno aumentando, purtroppo anche le vittime, molti medici sono contagiati e gli ospedali sono allo stremo. Pur considerando una situazione senza paragoni, qualcosa non ha funzionato?
“Il Piemonte negli ultimi due anni è in testa nella griglia Lea. Vuol dire che la sanità è di alto livello, purtroppo adesso è sottoposta a una situazione emergenziale senza precedenti. Se va in difficoltà il Piemonte vuol dire davvero che la situazione va oltre l’eccezionalità. Adesso stiamo entrando finalmente nella consapevolezza, dopo che il mondo scientifico aveva fatto suonare campanelli d’allarme da qualche anno, che questa dei virus è una prospettiva che ci accompagnerà e, quindi, serve rimodulare un sistema. La programmazione si è trovata necessariamente spiazzata, anche se il comparto sanitario sta rispondendo in maniera straordinaria. Serve programmare un dopo, mettendo alle spalle diatribe, affidandoci alla sanità pubblica lasciando a chi vuole concorrere lo spazio che merita, attrezzandoci per una straordinarietà che rischia di diventare ricorrente”.

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