SACRO & PROFANO

"Il virus ha smascherato la nostra fragilità"

Le riflessioni di padre Viola, vescovo di Tortona, terra tra le più martoriate del Piemonte dove neppure l'obitorio è sufficiente a contenere le bare. "Dietro le mascherine si nasconde il vuoto abissale, anche di certa politica". Ma c'è speranza

«Le sirene ci scuotono facendoci sentire la nostra fragilità, la presenza di un pericolo, la paura della sofferenza e della morte, nostra e, ancor più, delle persone che amiamo. Le campane ci parlano di Dio, del suo amore per tutti, del suo desiderio di fare festa con noi, non certo nella ricerca di un effimero momento di alienazione dal presente, ma per poter vivere la nostra storia imparando a conoscere il senso anche della nostra fatica. Ci parlano, in fondo, della Pasqua».

Le sirene, a Tortona sembrano ululare più che altrove. Da settimane. Da quando questa fetta del Piemonte ha riaffermato anche nella terribile diffusione del virus il suo mescolarsi atavico con la Lombardia. Le campane non suonano per i funerali che non si possono più celebrare, una benedizione struggente in un silenzio e in un vuoto cattivi, al cimitero. Le bare nel container frigorifero, perché nell’obitorio non ce ne stanno più, sono l’immagine terribile del numero di vite portate via e che ancora continuano ad andarsene, nell’inaccettabile solitudine imposta dalla malattia.  

Padre Vittorio Viola, francescano, da sei anni vescovo, affida a quei suoni, tanto diversi e tanto capaci di muovere emozioni diverse, la sua riflessione su una Pasqua non può essere che diversa qui, come altrove dove la malattia, la sofferenza e la morte, hanno un’origine tanto lontana dall’immaginazione umana da accrescere angoscia e senso di fragilità. Ma, ricorda Padre Viola, «La Pasqua offre a tutti noi la possibilità di “passare”, perché Pasqua, Pesah, significa passaggio da morte a vita. Il Figlio di Dio ha voluto sulla croce fare sua la nostra morte per sconfiggerla con la sua obbedienza di amore al Padre. È questa la notizia della quale siamo chiamati a riempire il mondo».

Tortona, le sue fabbriche chiuse, i suoi campi tagliati da strade deserte, l’ospedale primo a essere interamente convertito per la cura dei contagiati dal coronavirus, è anche simbolo concreto di abnegazione di chi in quell’ospedale ci lavora e si è ammalato, così come di carenze, ritardi, responsabilità che chissà se un giorno verranno attribuite. In corsia, tra i malati, senza o con poche mascherine. Già le mascherine. «È quasi paradossale: mettendola sui nostri volti ci ha smascherato», dice il vescovo. «L’evidenza della fragilità della nostra vita in tutti i suoi aspetti, ha fatto cadere le nostre innumerevoli maschere dietro alle quali spesso nascondiamo un vuoto abissale».

Un vuoto che anche «quello di una politica che affronta i problemi preoccupata solo del consenso elettorale, di un’Europa che si agita solo per difendere lobbistici interessi economici, di uno sport e il calcio in particolare, diventato una idolatrica religione con i suoi insensibili dei di plastica, di una privacy che per tutelare le persone è disposta anche a farle morire da sole».

Padre Viola, è uomo di chiesa che parla in maniera diretta, che usa i simboli, come le parole, per arrivare dritto. Lo fece per evitare i licenziamenti dei lavoratori autostradali con frasi che lasciarono il segno e contribuirono a cambiare un destino triste per molte famiglie, celebrò la messa di Natale con i dipendenti della Pernigotti nel pieno di una crisi.

Oggi, con le chiese forzatamente vuote, parla di un «vuoto che è espressione della nostra immaturità umana, della nostra coscienza deformata, della nostra incapacità di affrontare la vita, delle nostre ideologie, anche religiose, della nostra ricerca di un benessere temporaneo che non si preoccupa di quello eterno, vale a dire della salvezza». Ricorre a alla metafora del Titanic: «Nel salone delle feste del transatlantico più possente di sempre, nessuno si poneva la domanda su quale fosse il vero motivo per far festa. Bastò, ahimè, un iceberg nella nebbia per dire che la festa era finita e per far colare a picco quel senso di forza, di presunta titanica invincibilità».

Il virus è il male che si vede nei volti di chi soffre e chi cura, si sente nel suono delle ambulanze nei giorni e nelle notti. Ma, ricorda il vescovo, il virus «è il setaccio che ha vagliato in un istante ciò che conta e ciò che non conta, il vero e il falso. Ci costringe a farci domande e a cercare risposte credibili, ovvero capaci di stare di fronte alla drammatica bellezza della vita».

Le sirene, forse, ululano un poco meno di certi giorni non ancora lontani, i numeri sono ancora troppo pesanti. «Nei giorni scorsi ho chiesto ai tutti i parroci di continuare ad annunciare con il suono delle campane la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, pur non potendo convocare l’assemblea. Nella domenica di Pasqua, a mezzogiorno, tutte le nostre Chiese suoneranno a distesa. Abbiamo bisogno di Dio, del suo amore che salva, della Pasqua del Figlio suo che ci libera da ogni schiavitù, anche quella della morte».  

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