Nazionalizzare la salute

Il Piemonte è nuovamente entrato a far parte delle cosiddette zone arancione: il Covid della terza ondata si propaga a Torino e nell’intera regione subalpina. Gli esercenti di bar e ristoranti lunedì scorso hanno smontato per l’ennesima volta i loro dehors temendo un’ennesima futura chiusura totale, che potrebbe essere imminente se i contagi saliranno ancora.

Un tira e molla da incubo per le famiglie il cui reddito è il frutto delle attività più colpite dall’emergenza Covid19, un “chiudere e aprire” che da oramai un anno segna drammaticamente l’esistenza di commercianti, studenti, addetti del comparto spettacolo, anziani e molte altre categorie sociali.

La stretta sanitaria è certamente una misura da varare con attenzione, non a cuor leggero, poiché i suoi effetti ricadono su un’infinità di ambiti personali e sociali. Le città, ad esempio, subiscono contraccolpi a ogni coprifuoco. Il tessuto urbano si lacera ogniqualvolta si riaffaccia la serrata totale dopo un timido e fugace ritorno alla normalità. Il battere delle 18 riporta alla memoria gli antichi colpi di cannone sparati dagli spalti per ordinare alla popolazione di rintanarsi nelle case: allo scoccare dell’ora in cui chiudono i locali inizia l’abbandono di strade e piazze a se stesse, luoghi che diventano territorio di chi li usa per traffici vari.

Una città è accogliente quando i suoi cittadini vivono gli spazi comuni, i beni pubblici, con lo spirito inclusivo di una comunità aperta. Bambini che giocano, anziani che parlano e giovani intenti a mangiare una pizza all’aperto costituiscono il ritratto di una metropoli che non ha paura di nulla e di nessuno. Al contrario le vie deserte evocano le atmosfere dei film hollywoodiani post catastrofe, pellicole dove regnano incontrastate la desolazione e la paura.      

La reazione delle persone ai vari lockdown è paradossale poiché i cittadini diventano vittime e allo stesso tempo carnefici di se stessi. La corsa collettiva all’assembramento quando il rischio di contagio scende ricorda chi, in maniera masochistica, ama interpretare contemporaneamente il ruolo del boia e dell’impiccato. Invero, alla movida e allo shopping di massa segue regolarmente un acuirsi delle infezioni e quindi delle stringenti misure di contenimento, con buona pace dei lavoratori e degli studenti costretti a stare nuovamente in casa.

L’immagine offerta dalla popolazione in questi giorni di fine inverno rispecchia la medesima incontenibile voglia di stare insieme degli scolari durante il breve intervallo tra una lezione e l’altra. Nell’ultima domenica “Gialla” migliaia di cittadini sono andati in gita fuori porta riempiendo all’inverosimile treni e autobus: una ressa i cui effetti probabilmente si osserveranno tra qualche giorno. Nello stesso modo potremo presto verificare le conseguenze degli spritz sorseggiati ai Navigli, oppure dell’andare per vetrine durante il fine settimana torinese.

La fame di libertà è incontenibile, specialmente tra i più giovani, ma lo è anche il raggio d’azione del Covid19. Un anno è davvero lungo se vissuto tra elenchi di deceduti, nuovi contagi e macabri bollettini: notizie che infondono panico amplificato dall’essere tutti immersi in un pesante isolamento sociale. Secondo Ursula Von der Leyen dovremmo abituarci a fare di continuo i conti con le pandemie. La presidente della Commissione Europea ha esternato un’ipotesi tanto raccapricciante quanto possibile, ma l’invito a prepararsi a futuri virus assassini non prevede il mea culpa da parte delle Istituzioni nazionali ed europee (come bene ha osservato in aula l’eurodeputata Manon Aubry).

Parlamenti e consigli non vogliono proprio fare tesoro degli insegnamenti derivanti da questa brutta vicenda. La Politica non ha alcuna intenzione di analizzare con lucidità il passaggio epocale che tutti noi stiamo vivendo, e neppure di valutare gli errori gestionali dei governi passati. Nessuno pare abbia il coraggio di ridimensionare nella Sanità il ruolo del Privato a vantaggio di quello statale. 

Il pensiero si dirige all’industria farmaceutica, la quale ha beneficiato di milioni di euro che le nazioni hanno destinato alla ricerca. I manager, malgrado i sostanziosi finanziamenti ricevuti, ora vendono il vaccino al miglior offerente non rinunciando al ghiotto profitto derivante dai brevetti (ottenuti grazie al generoso impegno pubblico). Ritardi, irreperibilità delle fiale, borsa nera del farmaco (oltre alle altre speculazioni sottobanco) dovrebbero fare riflettere attentamente i governi sulla necessità di nazionalizzare la ricerca e la produzione dei vaccini. Lo Stato garantirebbe i cittadini anche sulla validità del prodotto, mettendoli al riparo da eventuali effetti collaterali utili solo ai faccendieri.

Le istituzioni ad oggi hanno rinunciato al ruolo protagonista, demandando tutto a ricchi industriali e al buon senso dei cittadini. Nei mesi di marzo e aprile dell’anno scorso i media martellavano sul dovere di stare rintanati in casa, dispensando insieme alle raccomandazioni un perenne senso di angoscia alla collettività. Oggi invece non si spende neppure un centesimo per educare la cittadinanza alla corretta prassi del rispetto del prossimo: si sanziona, ma non si controlla; si punisce, ma non si educa; si chiude, ma non si previene il lockdown. Scelte che offrono ai teorici della cospirazione ottimo materiale propagandistico.

Più pubblico non vuol dire statalismo, ma assegnare ad ognuno il proprio ruolo: al Privato quello di perseguire il profitto, allo Stato invece quello di tutelare il bene comune. Un principio a dir poco elementare.

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