Transizione ecologica e dirigismo di Stato

Notizie delle ultime settimane riportano di chiusure di alcune fabbriche e del licenziamento dei relativi dipendenti. Sicuramente alcune aziende hanno aspettato lo sblocco dei licenziamenti per procedere alla chiusura degli impianti, decisione che può essere stata presa anche più di un anno fa, però fra le varie chiusure non può sfuggire che alcune di queste sono legate al settore automobilistico e sono sintomi di qualcosa di più profondo. Potrebbe sembrare che sia un fatto legato alla ciclica riduzione delle vendite che ogni tanto colpisce il settore, ma in realtà sono le prime avvisaglie di quella che pomposamente viene chiamata “Transizione Ecologica”, che si traduce nell’abbandono del motore endotermico per quello elettrico nel settore dei trasporti. Dubitiamo che si tratti di un vero vantaggio ecologico, dato che l’energia elettrica in qualche modo bisogna produrla e per gli inevitabili sprechi nel suo trasporto e nei cicli di ricarica della batteria, oltre agli oneri non ben quantificati per adeguare la rete di distribuzione elettrica con possibili blackout. A ciò aggiungiamo lo smaltimento di tonnellate di batterie che non si sa dove andranno a finire e la rottamazione di tante auto che ancora potrebbero circolare tranquillamente perché non eccessivamente vecchie. Altro particolare di non poco conto, l’auto elettrica è un favore alla Cina che nel settore automobilistico non può certo competere con i produttori europei, giapponesi o americani specialmente nel settore premium.

A tutti questi dubbi bisogna aggiungere il costo in termini di posti di lavori di cui nessuno sembra preoccuparsi: salviamo anche il panda, ma mi pare che sia più importante che le persone abbiano un lavoro con cui sfamare le famiglie. Il fanatismo di alcune frange ecologiste inebriate da furore ecologico, tende a far dimenticare i costi umani e le prime conseguenze sono le chiusure di alcune fabbriche come sta avvenendo. Quando in un mercato si introduce un’innovazione di prodotto o di processo le aziende sono costrette ad adeguarsi altrimenti rischiano di fallire e questi cambiamenti hanno impatto anche sui lavoratori. Più è grande l’innovazione, più sono grandi i cambiamenti. Se questo avviene per un naturale sviluppo della tecnologia si tratta di un processo inevitabile e che in qualche modo porterà a un miglioramento complessivo anche attraverso cambiamenti non sempre piacevoli per alcuni. Nel caso della cosiddetta transizione ecologica non ci troviamo di fronte ad un’innovazione frutto dell’incessante lavorio della mente umana per migliorare quantità e qualità della produzione a servizio dei consumatori, ma di un progetto calato dall’alto ideato da burocrati e politici per imporre ai cittadini europei un cambiamento obbligato delle loro abitudini e del loro modo di vivere e produrre. Un conto è costruire un nuovo tipo di auto e metterlo in vendita cercando di convincere i consumatori ad acquistare e tutt’altro conto è costringere i produttori di auto a costruire un determinato tipo di auto e parimenti costringere i consumatori ad acquistarlo.

Ci troviamo di fronte alla completa abolizione di ogni logica di mercato che non è altro che il libero scambio fra produttori e consumatori. Lo stesso ministro Cingolani che è deputato a gestire la materia della transizione ecologia ha ammesso che potrebbe trasformarsi in un “bagno di sangue”. Purtroppo per quanto retorica si possa fare sul “liberismo selvaggio”, qui ci troviamo in uno scenario esattamente opposto, in cui un “masterplan” di sovietica memoria, deciso dalle burocrazie europee, deciderà le sorti economiche per i prossimi anni di qualche centinaio di milione di cittadini. Per quanto per l’Italia possa sembrare vantaggioso ricevere soldi dall’Unione Europea, non bisogna dimenticare che in gran parte si tratta di prestiti che prima o poi bisognerà restituire e soprattutto è legato ad alcuni obblighi i cui confini non sono ben definibili. La transizione ecologica è una bella espressione, ma bisogna evitare che si trasformi in un bagno di sangue e ci si chiede se abbia una sua logica economica o è solo una chimera che i politici vogliono seguire sotto pressione di alcuni settori economici e degli ecologisti. Negli ultimi tempi ci si dimentica di quali sono le priorità e anteporre le opinioni di alcuni al benessere di tutti non è certamente un’azione razionale. I piani quinquennali sono spariti con l’Unione Sovietica, ma ricompaiono come direttive internazionali o europee per la lotta al cambiamento climatico o altre teorie simili e lo spazio del mercato si restringe sempre più. Ormai sono gli stati a decidere cosa produrre a cosa debbono acquistare i consumatori. Alcune fabbriche stanno incominciando a chiudere e Torino non ha ottenuto la cosiddetta Gigafactory e si vuole sperare che la gestione di questa transizione ecologica non si dimentichi delle esigenze di operari e impiegati. Ci dispiace se un panda muore, ma è più grave che una persona perda il posto di lavoro e non abbia di che sfamare la famiglia.

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