SACRO & PROFANO

Cardinale all'ultimo Miglio

Con la conquista della berretta rossa della "volpe di San Giorgio", il Canavese si conferma terra fertile per le alte gerarchie della Chiesa. Il vescovo di Ivrea e la convivenza con "suocera" Bettazzi. Rumors sulla successione. Monsignor Olivero e l'intercomunione coi Valdesi

La notizia dell’elevazione di monsignor Arrigo Miglio al cardinalato, ha sorpreso molti, ma non quelli che conoscono bene colui il quale, dal nome del suo paese natale, è conosciuto come «la volpe di San Giorgio», il ridente centro del Canavese dove è nato nel 1942. Ivrea, si conferma così, ancora una volta, come la diocesi piemontese che ha dato alla Chiesa, a partire dagli Anni Trenta del Novecento, il maggior numero di vescovi e cardinali, fra questi, i diplomatici Giuseppe Fietta, Carlo Furno, Giuseppe Bertello, i fratelli Giovanni e Giuseppe D’Andrea, senza dimenticare il salesiano Tarcisio Bertone, nativo di Romano Canavese. Ai quali oggi si aggiunge Arrigo Miglio.

Ordinato sacerdote nel 1967, circolano ancora in diocesi le foto di un giovane don Arrigo con la barba sessantottina davanti allo stabilimento Lancia di Chivasso in sciopero. Convertitosi al carrierismo all’ombra di monsignor Luigi Bettazzi, fu suo vicario generale dal 1981 al 1992, di fatto governando la diocesi, essendo il “vescovo rosso” spesso impegnato altrove come presidente di Pax Christi o assorbito dal presenzialismo in campo ecclesiale e politico. Venendo così premiato nel 1992, attraverso la potente “cordata Silvestrini”, con l’episcopato a Iglesias per poi succedere, nel 1999, allo stesso Bettazzi nella sede di Ivrea dove si impose per prudenza e cautela, sempre ben attento agli orientamenti ufficiali della Santa Sede. Nel 2012, per volontà del cardinal Bertone, fu   traslato a Cagliari dove, come anche ad Ivrea, con il suo distacco tutto piemontese, non fu mai troppo amato dal clero. Con Bergoglio, rispolverate le antiche simpatie progressiste, iniziava per lui una nuova stagione.    

La berretta cardinalizia a Miglio, costituisce un grave smacco per l’immortale Luigi Bettazzi che, alla vigilia del secolo di vita, è stato surclassato dal suo successore, per cui dovrà ancora attendere per finalmente ricoprire – magari per iniziativa del prossimo papa! – l’agognata porpora. Così pure, escono delusi gli attempati suoi fedeli che vedevano nel cardinalato al “vescovo rosso” un tardivo tributo all’ideologia conciliare. Con Bergoglio però non si scherza e qualcuno non deve averlo ancora capito. Tempo fa un anziano prete eporediese di fede bettazziana, durante un’udienza pubblica, mentre dalla transenna stringeva la mano al Santo Padre, ardì chiedergli, nella sua ingenuità, quando finalmente avrebbe fatto cardinale Bettazzi. Il papa sorrise e passò oltre, ma si risentì moltissimo e, convocato il cardinale Giuseppe Bertello, originario di Foglizzo e allora governatore della Città del Vaticano, gli chiese chi fosse mai quell’insolente suo conterraneo che aveva osato fargli una simile inopportuna domanda.

Ma quali benemerenze, agli occhi del papa, rispetto a tanti vescovi emeriti italiani, avrebbe mai acquisito monsignor Arrigo Miglio?  Qualche malizioso, ha osservato che il papa ha premiato con la berretta cardinalizia, in questo concistoro, alcuni suoi “killer”. Il primo sarebbe l’attuale prefetto della congregazione per il culto divino, l’arcivescovo Arthur Roche, il quale, con fervente zelo, sta mettendo in atto la repressione contro i fedeli della  Messa in latino e contro le fiorenti comunità tradizionaliste, applicando senza pietà il motu proprio Traditionis Custodes, confezionatogli dall’amico Andrea Grillo. Il secondo è il gesuita canonista di lungo corso Gianfranco Ghirlanda che sa sempre trovare le argomentazioni giuridiche per normalizzare comunità e gruppi non allineati al verbo bergogliano – vedasi Ordine di Malta e Memores Domini–  e che si è distinto anche nel porre il suo sigillo sulla delicata operazione di estromettere Enzo Bianchi da Bose. E Arrigo Miglio? Il suo grande merito, agli occhi del papa, sarebbe quello di aver evitato, senza clamori, come è nel suo stile, in qualità di commissario della basilica extraterritoriale di San Paolo fuori le Mura, uno scandalo dovuto a comportamenti poco consoni dell’abate benedettino dom Roberto Dotta – trasferito a Subiaco – e di altri monaci. Così pure di aver raddrizzato la dissestata situazione economica del complesso della basilica Ostiense, esautorando de facto, come costume di papa Bergoglio, l’arciprete in carica e cioè il cardinale americano James Michael Harvey, al quale è sicuramente destinato a succedere.     

Nella carriera senza sbavature di Arrigo Miglio, c’è però un episodio non chiarito fino in fondo nelle sue dinamiche.  Esso risale ai tempi del suo episcopato cagliaritano.  Non si è mai infatti capito cosa spinse nel 2018 proprio lui – progressista della più bell’acqua e Bettazzi filius– ad erigere nella sua diocesi, primo in Italia dopo Roma e già regnante Francesco, presso la basilica di Santa Croce di Cagliari, una parrocchia personale dedicata alla cura pastorale dei fedeli legati alla Messa antica, affidandola al parroco don Gianluca Pretta e meritandosi così vasta gratitudine circa l’applicazione del motu proprio Summorum Pontificum in Sardegna. Fu solo l’istanza dei fedeli che lo chiedevano o la sua nota generosità e simpatia – si fa per dire – verso i tradizionalisti? O fu qual cos’altro? Chissà che un giorno non si vengano a conoscere le vere motivazioni.  Qualche indizio non manca.

Adesso l’attuale vescovo di Ivrea, Edoardo Aldo Cerrato, dovrà convivere oltre che con l’attiva presenza della “suocera” Bettazzi, con quella più discreta, ma non meno ingombrante, del più astuto e influente cardinale Miglio il quale, ovviamente, avrà un peso determinante quando, fra due anni, si dovrà nominare il nuovo vescovo eporediese. Non è un segreto per nessuno che la nomina a vescovo di Biella di don Roberto Farinella è dovuta ai suoi buoni uffici, così pure il tentativo – non riuscito – di imporre un prete di Ivrea a vescovo di Nuoro. Fra i nomi che circolano come successore di Cerrato, i giornali locali danno in pole positionquello di don Davide Smiderle, classe 1975, ordinato sacerdote nel 2001 dallo stesso Miglio, emergente e attivissimo parroco di Chivasso e con buone entrature nel cerchio magico torinese di San Lorenzo.

Intanto, la capitale del Canavese non riesce a superare l’egemonia culturale dei pensionati d’oro dell’olivettismo nostalgico e del supponente cattocomunismo bettazziano. Per questo, Ivrea vive un lungo tramonto depressivo che ne fa una città con lo sguardo perennemente rivolto a un passato tanto glorioso quanto avvolto nel mito. Su cui vigila, mentre le vocazioni languono, una scolta di occhiuti prelati.

Impressioni positive per l’altro neo cardinale piemontese, padre Giorgio Marengo dei Missionari della Consolata che, con i suoi 47 anni, diventa il più giovane membro del collegio cardinalizio. Nato a Cuneo, ordinato sacerdote nel 2001, fu elevato all’episcopato nel 2020 dal cardinale Luis Antonio Tagle nel santuario della Consolata, diventando, in qualità di  prefetto apostolico, il primo vescovo della Mongolia che conta appena 1.500 cattolici. Chi lo conosce ne ammira la fede umile e la disponibilità verso tutti. Pochi giorni prima dell’annuncio della sua nomina, aveva accompagnato dal papa un gruppo di fedeli buddisti. Con la sua giovane età è destinato a partecipare a parecchi conclavi.

Dalle nomine esce invece umiliata Milano, la diocesi di Sant’Ambrogio, di San Carlo, di Schuster, Montini e Martini, soltanto per fare alcuni grandi nomi. Non solo niente porpora all’arcivescovo Mario Delpini ma – summainiuria– entra nel collegio cardinalizio il vescovo di Como monsignor Oscar Cantoni che, tra l’altro, ha avuto parte nelle note vicende del preseminario San Pio X in Vaticano e in quelle della vendita dell’appartamento di Londra. È un po’ come se in Piemonte, invece dell’arcivescovo di Torino, diventasse cardinale il vescovo di Asti o di Alba. Cosa che non è affatto da escludersi in quanto, secondo Bergoglio, con la porpora non si premiano le sedi, sia pure prestigiose, ma i meriti e, soprattutto, la fedeltà al papa. Sono lontani i tempi di quando Giovanni XXIII, come riferito dal cardinale Pericle Felici, lagnandosi di un prelato distante dalle sue vedute, aggiungeva che però – in virtù della posizione da questi rivestita nella curia romana – avrebbe comunque «dovuto» farlo cardinale. Adesso, in tempi di pseudosinodalità, il pensiero deve essere uno solo. Diversamente dai tempi di papa Benedetto, non si disturba il manovratore.

Oggi, domenica di Pentecoste, a Pinerolo avrà luogo, trasmesso in diretta su Rai Due, un avvenimento importante. Si assisterà a una specie di «ospitalità eucaristica», sia pure, dicono i suoi fautori, in forma ancora imperfetta, scambiando tra il tempio valdese e la cattedrale di San Donato i segni eucaristici del pane e del vino. Ora, lo scambio di qualche pagnotta e di un po’ di buon vino piemontese non può certo fare del male, tenuto conto che i vescovi di Pinerolo, come diceva un teologo torinese, «sono condannati all’ecumenismo». A condizione però che l’«ospitalità eucaristica» non diventi  l’intercomunione  e soprattutto che da parte cattolica si sappia almeno che la Santa Messa è valida purché la materia sia costituita da vero pane azzimo e vino d’uva non alterato. La cosiddetta «ospitalità eucaristica» – cioè l’intercomunione – è tutt’ora e ancora recentemente, non consentita dalla Chiesa, in quanto generatrice di equivoci e fraintendimenti tra la Santa Messa cattolica e la Santa Cena protestante. Per i cattolici infatti, durante la Messa, in virtù delle parole della consacrazione del pane e del vino pronunciate dal sacerdote, avviene il passaggio totale della sostanza del pane e del vino in quella del corpo e del sangue di Cristo (transustanziazione), attuando così la presenza reale di Cristo nel sacramento eucaristico. Invece, in ambito protestante, il pane e il vino non possono sostituire o essere il Signore; non si mangia Cristo, si mangia conCristo. Nella Riforma, come è noto, il tema eucaristico fu da sempre dibattuto, con posizioni diverse. Martin Lutero parlava di ubiquità di Cristo, Zwingli, in polemica con lui, traduceva l’estdell’hoc est corpus meuscon significatintendendo la trasformazione delle membra di Cristo come un fatto riguardante non il pane ma la comunità raccolta. Giovanni Calvino – alle cui posizioni si ispirano i valdesi – si situa in una posizione intermedia dove la Cena non è, come per i cattolici, la ripresentazione del sacrificio di Cristo ma soltanto una commemorazione, dove il pane che si riceve è il dono che Gesù ha fatto alla comunità. Il diverso modo di intendere la presenza di Cristo nell’Eucaristia rappresenta quindi una delicata questione teologica dove si ha a che fare con il centro della fede cristiana.

Lo scambio del pane e del vino in eurovisione tra protestanti e cattolici, è stato accolto dal vescovo di Pinerolo monsignor Derio Olivero che, dopo la bocciatura della sua proposta di un documento sul tema da parte dei vescovi piemontesi – al fine di forzare la mano a Roma – ha deciso di agire da solo. D’altro canto, la cosiddetta «ospitalità eucaristica» non soltanto nella diocesi di Pinerolo, ma anche in quella di Torino, è diffusa e comunque tollerata, come avviene presso la chiesa di san Rocco in via San Francesco d’Assisi di cui è rettore il cugino del vescovo Derio don Fredo Olivero. In questo caso quindi, le indicazioni di Roma possono essere tranquillamente e senza conseguenze disattese. Roma locuta, causa non finita.Invece, ai fedeli di Pinerolo che chiedevano la celebrazione di una Messa antica, è stato risposto doversi prima interpellare Roma, proprio quando Traditionis Custodes affida invece al vescovo ogni decisione in merito. In questo caso quindi, più papisti del papa, perché nella Chiesa, oggi più che mai, le regole si interpretano soltanto per i fedeli di serie A. Per tutti gli altri, si applicano con rigore.

Sul settimanale diocesano La Voce e il Tempo, Luciana Ruatta commenta entusiasticamente l’orrida immagine che compare per Pentecoste sull’ultima edizione del Messale Romano, dove viene omessa la fiammella dello Spirito Santo sul capo di Maria, presente la vigilia nel Cenacolo con gli Apostoli. Senza ricorrere a San Luigi Grignon de Montfort – autore sospetto! – osserviamo solo che lo Spirito Santo giunge agli Apostoli attraverso Maria, per questo la Chiesa e in essa la successione apostolica, o è mariana o non è. Il sensus fidei, e cioè quella sorta di istinto spirituale che permette al credente di riconoscere la dottrina e la prassi cristiana autentica, non si fa però troppo confondere da vaghi sofismi. Sembra che non pochi abbiano, come già avvenuto per il Lezionario, eliminato la quasi blasfema immagine con il taglierino.

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