SACRO & PROFANO

Una Chiesa vicina all'implosione, Repole arruola laici "adulti"

Il nuovo arcivescovo di Torino è alle prese con la riorganizzazione della diocesi. Le parole preoccupate di Enzo Bianchi: "Siamo gli ultimi cristiani?" E rivaluta la tradizione cattolica in uno spirito di "comunione plurale". Papa Francesco e il mainstream

Il “cerchio magico” dell’arcivescovo Roberto Repole sta studiando i nuovi assetti diocesani e sembra che sarà dato ampio spazio a laici preparati e ovviamente “adulti”. Intanto, almeno tre parrocchie sono o stanno per diventare vacanti e giugno – in prossimità della festività del patrono San Giovanni Battista – è da sempre il mese delle nomine. Lo sarà anche questa volta?

Le riflessioni che ogni settimana Enzo Bianchi affida alle pagine della Repubblica hanno avuto lunedì scorso un tenore sorprendente, soprattutto per coloro – e sono molti – che hanno imparato da lui, in tanti anni, il verbo di un cattolicesimo dalle sorti magnifiche e progressive. L’ex priore di Bose traccia il quadro – peraltro realistico – di una Chiesa che starebbe «implodendo», polarizzata tra tradizionalisti e innovatori, dilaniata dalle fazioni, «malata della patologia scismatica spesso nascosta e a volte conclamata». Sul tema della liturgia sarebbe poi in corso «una vera guerra». Qui però emerge la novità: «I tradizionalisti non conoscono la sterilità di vocazioni presbiterali e religiose che conosce la Chiesa: in Francia su una media di poco più di 100 preti ordinati all’anno la metà provengono da movimenti e comunità tradizionaliste. Anche i monasteri tradizionalisti sono fiorenti, con una vita religiosa seria. Li conosco personalmente, sono andato e ho mandato alcuni miei fratelli a sostare presso il monastero di Le Barroux, dove io stesso sono rimasto edificato dalla qualità evangelica della vita che vi si conduce. Ora, come non riconoscere un posto anche per loro nella chiesa, con un atteggiamento inclusivo e non esclusivo, con una volontà di vivere una comunione plurale? La sfida è grande, ma l’attuale reciproca contestazione sfibra la Chiesa e la stanca, in un’ora segnata dalla scristianizzazione della nostra società, nella quale risuona una domanda: siamo gli ultimi cristiani? Occorrono un discernimento e l’accettazione della tradizione cattolica, e dunque anche del concilio Vaticano II, ma si deve fare spazio a una comunione plurale, non monolitica, nella quale i cristiani possono vantarsi di avere in dono l’unità della fede vissuta nella libertà dei figli di Dio».

Dunque, una «comunione plurale» ove, se abbiamo ben capito, trovino posto tutte le sensibilità, anche quelle più tradizionali, nell’«unità della fede». Ma proprio questo è il punto. Vogliamo ancora ricordare con quale scandalo fu accolta nel 2000 – anche da Bose – la dichiarazione Dominus Jesus che proclamava una semplice verità: Gesù Cristo è l’unico e necessario Salvatore di tutti gli uomini? Oggi l’unità della fede è in frantumi nella Chiesa ma se anche Enzo Bianchi, di fronte a tale disastro, sembra approdare al realismo cristiano del soprannaturale vuol dire proprio che non è mai troppo tardi. In ogni caso, la prospettiva della «comunione plurale» di Enzo Bianchi se pure, come egli stesso riconosce, di difficile attuazione, è comunque ragionevole e animata da quel sensus Ecclesiae e da quella vera misericordia di cui erano provvisti Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI i quali, pur avendo una loro linea e una loro visione, fecero sempre di tutto per tenere unita la Chiesa.

Un giovane e acuto vaticanista ha notato come «Benedetto XVI ha guidato con più difficoltà la Chiesa perché ha dovuto affrontare anche una buona parte di episcopato che lo osteggiava qualunque cosa dicesse. Ciò che però non è mai mancato in quegli anni è la chiarezza e l’attenzione alle persone. Nonostante ciò, Ratzinger veniva descritto come freddo e distaccato». Francesco è diverso, non cerca il dialogo, come vuol far credere con i suoi sinodi precostituiti, ma imporre la sua volontà e la sua linea senza possibilità di replica. Chi appena dissente da lui e cade in disgrazia ha chiuso, lo sanno bene quegli ecclesiastici e quei laici che lo hanno sperimentato. Perciò non ascolterà Enzo Bianchi, soprattutto da quando – dopo averlo allontanato da Bose – è uscito dal novero dei suoi acritici fans. Infatti, la settimana scorsa, ha incluso fra i membri del dicastero per il Culto Divino il cardinale Blase Cupich, arcivescovo di Chicago, uno dei più acerrimi nemici della Messa antica e conosciuto negli Usa come il “sicario” dei tradizionalisti. Nella sua diocesi ha limitato fortemente le celebrazioni Vetus Ordo, in particolare presso la parrocchia di San Giovanni Cantius sempre affollata di fedeli e questo ha spinto i cattolici di Chicago a organizzare raduni per la recita del rosario davanti alla cattedrale.

Ma non è finita. In settimana, il papa, con un rescritto ex audientia SS.mi, ha praticamente tolto ai vescovi il potere – da sempre loro prerogativa – di erigere una associazione pubblica di fedeli, in vista di diventare istituto di vita consacrata o società di vita apostolica di diritto  diocesano, senza aver avuto il preventivo permesso di Roma. Una ventata quindi di sinodalità! Appare chiaro come il provvedimento vuole impedire che i vescovi diano il loro assenso alle comunità tradizionali, le uniche – Bianchi docet – che oggi possono   ancora nascere. Lo Spirito Santo si sa – ubi vult spirat – ma in questo caso è meglio mettergli un freno.

A questo proposito, siamo stati benevolmente ripresi in quanto saremmo ipercritici verso il magistero di papa Francesco. Da modesti osservatori di cose ecclesiastiche, crediamo di no. Ricevendo venerdì 10 giugno la Federazione delle Associazioni Familiari Cattoliche in Europa, il Santo Padre, in riferimento al matrimonio, è stato chiaro: «L’amore reciproco tra un uomo e una donna è riflesso dell’amore assoluto e indefettibile con cui Dio ama l’essere umano, destinato ad essere fecondo e a realizzarsi nell’opera comune dell’ordine sociale e della custodia del creato» per cui «la famiglia fondata sul matrimonio è dunque al centro. È la prima cellula delle nostre comunità e dev’essere riconosciuta come tale, nella sua funzione generativa, unica e irrinunciabile. Non perché sia un’entità ideale e perfetta, non perché sia un modello ideologico, ma perché rappresenta il luogo naturale delle prime relazioni e della generazione». Ed ha aggiunto poi che: «La dignità dell’uomo e della donna è minacciata anche dalla pratica inumana e sempre più diffusa dell’utero in affitto, in cui le donne, quasi sempre povere, sono sfruttate, e i bambini sono trattati come merce». Il papa è dunque ben fermo nel riaffermare e difendere il matrimonio tra un uomo e una donna e a riprovare ogni pratica che si ponga contro il diritto naturale. In questi casi però – come avveniva per i suoi predecessori – l’eco delle sue parole è quasi nullo, non soltanto sulla stampa, ma anche nella Chiesa. Forse occorrerebbe chiedersi perché.

Notiamo infine come nella conversazione di papa Francesco con i dieci direttori delle riviste gesuitiche, alla domanda dell’intervistatore sul cammino sinodale tedesco e se esso possa ritenersi eretico, la risposta del Santo Padre è stata la seguente: «Al presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Georg Bätzing, ho detto: “In Germania c’è una Chiesa evangelica molto buona. Non ce ne vogliono due”». La battuta dice molto sul pensiero del papa, ma è difficile che con simili buffetti i tedeschi si fermino. Infatti, il 9 giugno la provincia francescana tedesca ha eletto il suo provinciale nella persona di Fr. Markus Fuhrmann che nei mesi scorsi è stato protagonista di un clamoroso coming out. Dopo l’elezione ha dichiarato che: «Se io stesso sono gay, voglio dimostrare che posso far parte della Chiesa anche in questo ufficio. Vorrei incoraggiare le persone a vedere questo come un’opportunità, che noi come chiesa siamo colorati, che la chiesa è (anche) queer, che questo è ciò che Dio vuole, che questo corrisponde alla diversità della creazione ed è quindi del tutto normale».

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