GRANA PADANA

Molinari un passo dalla presidenza, Canelli in corsa per la successione

Ore concitate nel centrodestra. Ma alla fine il deputato alessandrino dovrebbe farcela a conquistare lo scranno più alto di Montecitorio. A quel punto si aprirà la grana nella Lega piemontese. La reggenza al sindaco di Novara in attesa di un congresso (chissà quando)

La sera del primo giorno più lungo nel cammino verso il nuovo Governo si chiude con la Lega che, tramite le abituali fonti impersonali, fa sapere che “c’è crescente ottimismo” circa una soluzione per le presidenze di Camera e Senato. Ma è una notte che, quando già fonda, nessuno nel centrodestra se la sente di scommettere porterà consiglio e, soprattutto, quei due nomi su cui non può non esserci la condivisione invano cercata per tutta la vigilia della prima votazione.

Si giocherà, probabilmente, in queste prime ore del mattino la partita sul cui terreno Matteo Salvini è sceso subito con quella che a Fratelli d’Italia non è potuta non apparire plasticamente come un’entrata a gamba tesa. Oltre ad aggiungere peso alla richiesta del Viminale per sé, il segretario della Lega ha indicato in Roberto Calderoli il suo candidato alla presidenza del Senato, andando dritto contro Giorgia Meloni che intende affidare la seconda carica dello Stato a Ignazio La Russa, Uno dei fondatori del partito che se, come pare, non entrerà nel Governo non potrà certamente vedersi relegato a senatore semplice o, al massimo, al vertice di una commissione.

La mossa di Salvini, in asse con Silvio Berlusconi per difendere le due forze del centrodestra uscite malconce dalle urne, se non interverrà una soluzione prima del voto porrà un pesante fardello sul percorso e sull’avvio del Governo Meloni. Ancor prima agita lo stesso partito del Capitano dove, incominciando dai diretti interessati a scendere fino nelle lontane periferie, a nessuno sfugge che la “candidatura” di Calderoli equivale a una bocciatura di quella alla presidenza della Camera per Riccardo Molinari, capogruppo a Montecitorio indicato come l’altra metà del ticket con La Russa. Molti, in queste ore frenetiche scommettono che finirà proprio così, magari con Calderoli dirottato al ministero delle Riforme, un dicastero che la Lega rivendica e che come molti osservano potrebbe giovare non poco a un suo recupero di consensi, specie nel Nord. Certamente più di un ritorno del segretario al Viminale, le cui porte comunque la Meloni (e, probabilmente, lo stesso Quirinale) non aprirà mai a Salvini.

Dunque oggi il nome di Molinari potrebbe essere ripetuto molte volte nel corso dello scrutinio (anche se per l’esito occorrerà attendere la quarta votazione di domani), sempre che il rischio paventato dai Fratelli di “incartarsi” per colpa degli alleati, non si traduca in realtà. L’ipotesi che il parlamentare piemontese vada ad occupare il posto che nel 1994 vide accomodarsi un’impettita e impacciata Irene Pivetti e poi, accolse le politicamente consumate terga di figure come Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, circola da tempo e lo Spiffero per primo avanzò questa ipotesi quando molti la consideravano ancora una boutade.

Nato esattamente vent’anni dopo la Pivetti, Molinari oggi trentanovenne (otto in più di quelli che aveva la giovane vandeana), se eletto non mostrerà certo quei tratti di colei che lo precedette quando la Lega era ancora sinonimo di Umberto Bossi e il Nord era l’esatto opposto dell’orpello liquidato troppo in fretta da Salvini. Navigato, sia pure se solo con una legislatura sulle spalle, moderato quel che basta (a smarcarsi da toni eccessivi del leader, senza mai intaccare la lealtà nei suoi confronti), preparato negli interventi in aula, scafato davanti alla telecamere, apprezzato per lo spirito dialogante anche dagli avversari (di ieri una sorta di apertura dal renziano Ettore Rosato, “abbiamo sempre dialogato, continueremo a farlo, sa fare il suo mestiere”), insomma all’ex giovane padano cresciuto in fretta al fianco del Capitano senza finire per esserne l’attendente le carte per succedere al grillino Roberto Fico non mancano.

Se andrà cosi e a dar conto delle telefonate notturne tra i vertici del centrodestra tra le conseguenze che la sua elezione produrrà non si fermeranno alla scelta di un nuovo presidente dei deputati leghisti, posto peraltro ambìto e che Molinari ereditò da Giancarlo Giorgetti quando l’eminenza grigia andò a fare il sottosegretario a Palazzo Chigi. “Il Mol”, come lo chiamano i militanti dovrà lasciare la guida del partito nella sua regione. È pur vero che tra i suoi predecessori ci fu chi (Fini) dallo scranno di Montecitorio fondò addirittura un nuovo partito e che un altro, Fausto Bertinotti, da lì fece addirittura affossare un governo. Ma lo standing di Molinari propenderà in maniera decisa verso l’incarnazione piena e completa dell’alto ruolo istituzionale (anche per tenersi lontano da non improbabili agitazioni interne al partito, dopo la débâcle elettorale e soprattutto se i posti nel Governo non corrisponderanno alle aspettative), figurarsi continuare ad occuparsi della Lega in Piemonte. 

Da domani, o comunque con una certa necessaria alacrità, in via Bellerio si dovrà trovare un sostituto per un ruolo che Molinari ha esercitato senza preparare la sua successione, anzi come gli viene imputato da non pochi guardandosi bene dall’allevare un delfino nel timore di trovarsi poi a fare i conti con uno squalo. Pur mettendo in conto imperscrutabili e imprevedibili decisioni di Salvini, l’erede naturale di Molinari per la segretaria (anche se probabilmente con un ruolo di reggenza o commissariale nell’attesa godotiana dei congressi) è difficile non vederlo nel sindaco di Novara Alessandro Canelli. Rieletto con una valanga di voti (anche personali), chiamato al vertice di Ifel la finanziaria dell’Anci, profilo ideale e riconosciuto nel caso in cui la Lega dovesse mai esprimere un candidato per la presidenza della Regione, Canelli è un soldato della Lega che si è guadagnato rapidamente le stellette sul campo. Se sarà lui a prendere le redini del partito sul territorio regionale, ancora una volta il capoluogo resterà una sorta di cenerentola nella lunga favola leghista.

Dai tempi di Gipo Farassino, e siamo al paleozoico della Lega, Torino non ha più avuto figure al vertice del partito piemontese, lasciando alle province (prima Alessandria vincitrice al congresso sul Cuneese di Gianna Gancia, adesso probabilmente Novara) l’espressione della leadership. Una lacuna sulle cui ragioni si affastellano più di una possibile ragione, ma con una conseguenza evidente: la debolezza del partito sotto la Mole, rispetto agli altri territori. Un problema emerso con ulteriore drammaticità dal voto del 25 settembre scorso e che, in assenza di svolte ad oggi non alle viste, si riproporrà nel 2024 per le elezioni regionali. Un appuntamento al quale la Lega potrà, se oggi tutto andrà come le notizie che accompagnano verso l’alba lasciano presagire, avere nei suoi gazebo il presidente della Camera.

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