La tempra "difficile" di Burzi

Questo mese di dicembre mi fa pensare a un personaggio che l’anno scorso in questo periodo maturò la decisione di far mancare la sua presenza in questo mondo. Come era da lui, decisione tradotta in azione definitiva. Dico pensare e non ricordare, perché Angelo Burzi non era, almeno apparentemente, uomo di facili nostalgie e memorie sofferte: era della tempra di quei piemontesi tagliati con l’accetta, a loro volta capaci di usare questo rude, onesto arnese per sbozzare le proprie idee e quelle altrui, nell’opera di dar loro chiarezza e lucidità. Faceva pensare, per l’appunto, come sanno far pensare coloro che hanno una radicata nozione della molteplicità di aspetti della vita e il coraggio di farsene carico, persino a costo di essere poco capiti o fraintesi.

Eppure, dietro un’immagine giustificata dalla cortesia e dalla civiltà delle buone maniere, anche a prima vista si poteva avvertire in lui il rovello costante di chi tenta di raccogliere e ordinare l’inquietudine e finanche le incoerenze dell’esistenza nella gabbia della razionalità e della ragionevolezza. Esponente di un liberalismo antropologico di conio subalpino, quindi italiano e pertanto europeo, anche Burzi, quasi omonimo del grande Filippo Burzio, era convinto che il motore della politica fosse attivabile solo da un metaforico “demiurgo”, una personalità d’eccezione alla banale regolarità dell’uomo “qualunquemente” collettivo. Non un capo bastone, né un superuomo di massa, ma un coltivatore di riforme, un attrezzista borghese di trasformazioni sociali, in cui l’azione illuministica di un individuo serve a gettare le fondamenta di una convivenza sostanziata dalla giustizia distributiva. Data la complessità, l’asprezza di questa ricerca di equilibrio, era quasi inevitabile per lui cedere a certe angolosità di temperamento, che lo inquadravano nella tipologia dell’“uomo difficile”, quello che sconta la consapevolezza del fatto che una certa dose di orgoglio è l’ingrediente necessario dell’intelligenza.

Questi presupposti genetici e morali hanno alimentato il trentennio del suo impegno in Regione. Quando prendeva la parola, si capiva la differenza e tanto bastava per accertare il suo essere conservatore impulsivo e aperto (come la società popperiana che lo ispirava) alimentato da una tradizione politica intesa come somma di valori oggettivi utili alla gente e quindi sintonizzabili, senza snaturarsi, con il mutare delle situazioni. Credo gli piacesse una battuta di Piero Bassetti, primo presidente della Regione Lombardia: “Fatte le regioni, ora bisogna fare il regionalismo”. Perché in effetti ad un regionalismo inteso intellettualmente come un secondo risorgimento, più orientato del primo – almeno nelle intenzioni – alla costruzione di classe dirigente, ha dato nella prassi dell’associazionismo culturale un contributo che lo colloca tra i pochi ad aver lasciato il segno di un solco da approfondire. In questo senso realistico, gobettiano, amava il potere e lo detestava, lo gestiva e lo contrastava, sapendo bene, come diceva un rivoluzionario francese, che “nessuno può governare senza colpa”.

Mentre nel flusso di una conversazione telefonica cercavo di illustrargli la tesi di Giulio Bollati contenuta in quel piccolo gioiello che è “L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione”, dove si fa risalire lo scollamento tra politica e cultura alla stagione tardo ottocentesca del trasformismo di Depretis, mi arrivò dalla sua voce metallica e suadente un’obiezione incredibilmente acuta: che quella frattura era più recente e andava cercata nell’ondata di giustizialismo dei primi anni ’90, nel populismo giudiziario che non a caso aveva eletto a suo rappresentante simbolico un magistrato dal linguaggio incolto, persino fiero della sua ignoranza, esibita tra gli applausi come indice di verginità salvifica; l’ultimo Craxi si era prestato al gioco, un gioco ormai privo di regole, ma non per salvare il salvabile o per autoimmolarsi: solo per dire oltre qualsiasi reticenza, nel silenzio attonito dell’aula parlamentare, quello che tutti sapevano sul funzionamento, sull’approvvigionamento del sistema dei partiti repubblicani. Quell’intervento alla Camera del leader socialista era per Burzi il disegno nascosto sotto il dipinto della “questione morale” di Berlinguer, il sostrato ideologico, la prova documentale di una visione politica cosciente dei suoi valori fondativi, irrevocabilmente discesa nell’illegalità e sottoposta a giustizia sommaria.

Gravava sul suo ragionamento, più sconsolato che provocatorio, il peso di una vicenda giudiziaria, che era diventata per lui un’ossessione, l’idea fissa di un’ingiustizia subita. Ma c’era dell’altro: la constatazione che lo sbilanciamento dei poteri era causa di mali anche per la stessa magistratura, dove sapeva che molti servitori dello Stato sono costretti, dalle disfunzioni di apparato, a vivere quotidianamente quella che Michele Vietti ha chiamato “la fatica dei giusti”. Non è mai facile parlare di un uomo politico recentemente scomparso: troppo accese sono ancora le faziosità, gli scetticismi, le rese dei conti della cronaca, che annebbiano un più pacato giudizio storico. Tuttavia, credo che in questa direzione si debba andare, per trovare nel passato prossimo i protagonisti del passato remoto. A questi appartiene nel quadro del regionalismo piemontese la laicità testimoniata da Angelo Burzi.

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